Recensione a Gian Marco Caletti, Habeas corpus digitale. Lo statuto penale dell’immagine corporea tra privatezza e riservatezza, Giappichelli, 2024, XV-270
1. Con la sua opera monografica “Habeas corpus digitale. Lo statuto penale dell’immagine corporea tra privatezza e riservatezza”, Gian Marco Caletti offre un’analisi rigorosa delle nuove dimensioni offensive dell’immagine intima e del ruolo che il diritto penale è chiamato ad assumere, interrogandosi criticamente sulla fondatezza di eventuali interventi punitivi nella “società digitale”. È un compito complesso che l’Autore conduce con metodo, profondità ed equilibrio, collocandosi in modo originale nel nascente dibattito scientifico sull’argomento.
Le riflessioni dell’Autore muovono dalle distorsioni della “società digitale”, in cui tutto ruota intorno alla produzione, diffusione e consumo di contenuti mediali. Non solo le nostre opinioni e scelte si formano su quello che visualizziamo online, dalle dating app al “cosa mangiamo stasera”, ma viviamo in un una sorta di Truman Show permanente, dove l’immagine è estensione della persona e diventa protagonista indiscussa delle nostre vite: registrate, condivise, comunicate, immortalate dai — e nei — nostri smartphone. Nell’eco-sistema digitale, i concetti di intimità e riservatezza assumono inevitabilmente una nuova dimensione, con forme di abuso idonee ad incidere in modo significativo sull’integrità psico-fisica e sulla dignità della persona ritratta. L’immagine spesso ci precede e ci definisce, orientando aspettative e giudizi; eppure il controllo della stessa si disperde tra piattaforme, utenti e modelli di intelligenza artificiale capaci di creare e allo stesso tempo di diffondere e imporre i contenuti di cui ci nutriamo.
2. La crescente consapevolezza della portata lesiva di forme di abuso basate sull’immagine nella sfera digitale ha fatto emergere parallele istanze di criminalizzazione. Queste, tuttavia, non sempre si accompagnano ad un’adeguata comprensione della fenomenologia sottostante e, in alcuni casi, finiscono anche per attribuire al diritto penale compiti e funzioni che non gli sarebbero propri. Il risultato è una corsa regolatoria dettata dall’urgenza di rispondere a nuove temute tecnologie – come ad esempio il deepfake, capace di ricostruire in maniera realistica volti, corpi e azioni riferiti a soggetti reali – e dalla tendenza a ridefinire in senso estensivo categorie tradizionali, ma divenute ormai imprecise per la loro eccessiva onnicomprensività (ad esempio, la “violenza”), come mette persuasivamente in luce l’Autore. Ne deriva una normativa frammentata, che sfugge ai canoni di certezza e tutela effettiva richiesti, e che necessita di maggiore coerenza.
3. In questo contesto, l’Autore propone un quadro unitario e sistematico utile per analizzare gli abusi del corpo virtuale e la relativa protezione penale: una disamina volta a delineare un vero e proprio “statuto penale dell’immagine”. Il cuore dello scritto, che si rinviene già dal titolo, è il concetto originale (e allo stesso tempo estremamente efficace) di “Habeas corpus digitale”: ovverosia l’esistenza di un diritto alla inviolabilità dell’immagine raffigurante un corpo in condizione di intimità e dunque a disporre e governare la rappresentazione della propria sfera corporea con i limiti del consenso e dell’autodeterminazione. Un diritto che, secondo l’Autore, si declina in una duplice dimensione sostanziale: in termini di “privatezza”, “quale libertà da interferenze e intrusioni digitali nella propria sfera corporea”, e di “riservatezza”, “quale tutela dall’indebita pubblicazione della propria immagine in condizioni di intimità”. Queste figure, già oggetto di elaborazione in passato da parte della dottrina penalistica (e in particolare Franco Bricola), vengono attualizzate e calate nel contesto digitale.
Con questo fil rouge, l’opera è strutturata in capitoli che seguono il ciclo di vita dell’immagine: il suo momento genetico (capitoli II, III, IV), poi la conservazione (capitolo V) e la condivisione privata (capitolo VI), infine la diffusione (capitolo VII). La scelta – motivata anche in riferimento alla tassonomia del recente Regolamento (UE) sui Servizi Digitali – risulta particolarmente utile per il lettore, che può così cogliere il fenomeno nella sua interezza, e – al contempo – isolare i diversi livelli di intersezione con il diritto penale, valutandone coerenza e limiti.
4. La prima fase dell’indagine è ripartita in tre snodi - “realizzazione”, “produzione” e “creazione” – attraverso i quali si esaminano le fasi originarie delle diverse forme abusive dell’immagine corporea.
L’Autore si concentra sui diversi profili di rilevanza penale, partendo dalle odierne declinazioni di voyeurismo digitale realizzate attraverso sistemi di captazione e registrazione di momenti di vita reale. L’indagine, in questo frangente, mette in luce le forti incertezze e i consistenti vuoti di tutela della privatezza che caratterizzano la normativa esistente, ancora incentrata sull’anacronistica disposizione di cui all’art. 615-bis c.p. (“interferenze illecite nella vita privata”). Nella prassi, infatti, tale norma si rivela inadeguata al contesto digitale, non solo per via delle fluttuazioni interpretative circa il concetto di “privata dimora”, ma anche per il requisito applicativo, di matrice giurisprudenziale, della provenienza esterna dell’interferenza.
Sono inoltre approfondite manifestazioni particolari di “fotografia intrusiva” in spazi pubblici, come i fenomeni di “upskirting” e “downblousing” (la condotta di scattare di nascosto foto “sotto la gonna” o “dentro la scollatura”). Si tratta di una casistica in cui l’intromissione non è nella sfera corporea del soggetto in situazioni di intimità (che spesso non viene neppure ripresa), ma si verifica con la realizzazione stessa dell’immagine, in assenza di alcun contatto fisico. L’auspicio, dunque, è che il dibattito su tali condotte possa inquadrarsi nell’ambito della, difficile e scivolosa, criminalizzazione delle molestie.
Ulteriori condotte, riconducibili alla fase di “produzione” di immagini, possono acquisire rilievo penale perché il soggetto raffigurato è un minore, complice l’incertezza sulla validità del consenso: vi rientrano il “sexting”, ossia l’invio di una propria immagine corporea a contenuto intimo ad un’altra persona (come l’invio del selfie intimo), e la “pornografia domestica” o amatoriale, che rientrerebbero nell’impianto dei delitti di pedopornografia, categoria in costante espansione. In questi casi, l’habeas corpus impone una riflessione su eventuali margini di disponibilità in capo al minore della propria immagine corporea, nonché sulla conseguente opportunità e i limiti dell’impiego dello strumento penale. I bilanci, tuttavia, vengono rimandati ad una fase più avanzata dell’indagine, ricorrendo il tema della tutela minori anche nei capitoli sulla “condivisione privata” e sulla diffusione dell’immagine.
Di estrema attualità poi il tema della “creazione” dell’immagine altrui, specie mediante tecniche di intelligenza artificiale. Il riferimento è, in particolare, ai già menzionati deepfakes, i cui effetti lesivi si sono manifestati anzitutto in ambito pornografico -mediante la sovrapposizione del volto della persona offesa su immagini di corpi di altri soggetti, nudi o impegnati in atti di natura esplicitamente sessuale -, per poi diffondersi in altri contesti (si pensi alla disinformazione politica).[1] L’autore inquadra il fenomeno sotto la lente dell’Habeas corpus digitale, nella sua duplice dimensione di tutela della privatezza e della riservatezza. Deve essere realistica l’immagine per essere lesiva? Vi è un’intromissione della sfera privata della persona raffigurata quando la condotta attiene alla mera creazione?
I deepfakes sono oggi espressamente oggetto di incriminazione ai sensi dell’art. 612 quater-c.p., introdotto dalla L. n. 132 del 2025.[2] La nuova disposizione punisce la diffusione (non mera creazione) illecita di contenuti generati o manipolati artificialmente, ma non è espressamente tarata sui contenuti di natura intima o sessualmente espliciti, soluzione che avrebbe meglio allineato l’incriminazione alla ratio di tutela. Essa si inserisce in un più ampio trend di criminalizzazione che interessa diversi Paesi e anche il versante europeo con la nuova Direttiva sulla violenza di genere. Gli approcci risultano tuttavia eterogenei e talora schizofrenici, quanto alla condotta tipica, all’oggetto della tutela, e pure all’elemento soggettivo.[3]
5. Esaurito l’esame del momento “genetico”, il libro si sofferma sulla conservazione privata dell’immagine. L’autore esamina quindi l’art. 167 del novellato Codice della Privacy, in forza del quale non sembrerebbe sussistere un obbligo penalmente rilevante di cancellazione o distruzione dell’immagine intima, nemmeno qualora la persona raffigurata revochi successivamente il consenso alla detenzione. Si prende atto che in questo momento le ipotesi di responsabilità penale sono piuttosto limitate e - anche in questo caso – assumono rilievo in presenza di minori, segnatamente quando l’immagine viene conservata sul dispositivo senza espresso consenso. Il capitolo dà inoltre ampio spazio alle strategie alternative di carattere extra-penale, come la segnalazione al Garante per la protezione dei dati personali (Garante Privacy), suggerendole come strada preferibilmente da percorrere rispetto a nuovi interventi penali.
6. Lo studio affronta successivamente la condotta di invio o cessione di una propria immagine. L’autore distingue tra due direttrici di possibile intervento penale, entrambe non esenti da profili problematici. La prima è quella legata alla già menzionata pratica del “sexting”, che spesso avviene tra adolescenti, in assenza di qualsivoglia indice costrittivo del minore. Si tratta di fenomeni controversi, che l’Autore esplora senza tralasciare la complessità del dibatto, mediante un’attenta osservazione del contesto sociale di riferimento e richiamando numerosi studi interdisciplinari.
La seconda direttrice, invece, verte sul fenomeno del “cyberflashing”, ovvero l’invio indesiderato di immagini di genitali, generalmente raffiguranti l’organo sessuale maschile dell’agente, anch’esso oggetto di criminalizzazione nella già menzionata Direttiva sulla violenza di genere.
Caletti, dopo un’attenta disamina della letteratura criminologica in materia e dei profili comparatistici, ci racconta le difficoltà nell’inquadramento di tale condotta nel panorama normativo nazionale: atti persecutori (art. 612-bis c.p.), adescamento di minori (609-undecies c.p.) o – più probabilmente - molestie (art. 660 c.p.)? Ancora una volta è l’Habeas corpus digitale a fornirci la chiave di lettura: la portata offensiva del cyberflashing non attiene alla rappresentazione del corpo di chi è raffigurato nell’immagine, ma alla libertà “negativa” di chi la riceve, che subisce un’intromissione non autorizzata nel proprio spazio di autonomia e autodeterminazione, riconducibile quindi alle molestie. In ogni caso, l’Autore raccomanda grande cautela circa la sua criminalizzazione specifica.
7. Nell’ultimo capitolo si affronta il nodo centrale della diffusione dell’immagine intima, sessualmente esplicita o comunque raffigurante un corpo nudo; è questo il momento in cui l’offesa raggiunge il culmine e si impone la necessità di intervenire più incisivamente a tutela della riservatezza corporea. La situazione normativa è tuttavia affidata ad un coacervo di fattispecie incriminatrici prive di coordinamento. Neppure la recente introduzione dell’art. 612-ter c.p. ha garantito la razionalità del sistema: se da un lato ha colmato un vuoto di tutela, dall’altro ha sollevato delicati problemi ermeneutici. La comparazione dei diversi trend legislativi consente poi all’Autore di mettere in luce un paradosso. Nei sistemi giuridici angloamericani, la diffusione non consensuale di immagini è stata sin dall’inizio trattata come un reato di natura sessuale – punito con pene severe, ma limitato alle sole immagini “sessuali”. Nei Paesi europei, invece, la stessa condotta è stata inizialmente qualificata come una violazione della privacy – sanzionata in modo più lieve, ma estesa anche alle immagini semplicemente “intime”. Nessuna delle due impostazioni sembra aver dato risultati pienamente soddisfacenti, tanto che molti legislatori sono già intervenuti nel tentativo di avvicinarsi al modello opposto. Da qui la proposta, dettata anche da ragioni di proporzionalità sanzionatoria, di adottare un modello di incriminazione graduale: punire come ipotesi base la diffusione di immagini che rappresentino il corpo nudo della persona offesa, prevedendo sanzioni crescenti quando il materiale ritrae atti sessuali e riservando disvalore maggiore ai casi in cui l’autore agisca con dolo specifico, per arrecare danno.
8. La monografia di Gian Marco Caletti è un’opera necessaria, al passo con i tempi e originale.
Offre innanzitutto una comprensione ordinata delle condotte offensive relative all’immagine nell’eco-sistema digitale e lo fa attraverso una tassonomia chiara, un inquadramento sistematico e coordinate criminologiche puntuali - collocate in una prospettiva sovranazionale e comparata. Ciò è estremamente utile, come dimostra, a titolo esemplificativo, la recentissima (e ancora in corso) indagine riguardante i siti “Phica.eu” e il gruppo su Facebook “Mia Moglie”, contraddistinta da pluralità di condotte e attori. Tra i profili più problematici, la responsabilità dei c.d. “secondi distributori”, compiutamente esaminata nel volume.
Inoltre, e soprattutto, fornisce un’analisi profonda e complessiva circa la necessità di accordare tutela penale alle varie forme di abuso dell’immagine. Staccandosi da ogni appiattimento del fenomeno entro la sola dimensione della violenza di genere, l’Autore propone una teorizzazione alternativa di un diritto al controllo esclusivo della propria immagine corporea. Egli conduce così il lettore dentro lo “statuto penale” dell’immagine, offrendogli una bussola per orientarsi in dinamiche sociali complesse. L’Habeas corpus digitale si configura infatti come strumento prezioso al tempo stesso di limite e di tutela: limite, come libertà di autodeterminazione e di esibizione del corpo nella sfera digitale; tutela, quale diritto all’esclusiva disponibilità dell’immagine personale corporea.
Rispetto a questa nuova casistica, l’Habeas corpus digitale assume così non soltanto il ruolo di protezione da ingerenze altrui, ma anche di freno ad interventi punitivi sproporzionati, come evidenziato dalle problematiche relative alle immagini raffiguranti minori, anch’essi titolari di una sfera, benché limitata, di autonomia personale e privacy. Sul punto si evidenziano le aporie dell’attuale quadro normativo, che non sembra trovare un soddisfacente equilibrio tra le istanze di protezione del minore e la non incriminabilità di condotte prive di reale lesività. Di qui l’esigenza di un intervento legislativo organico sulle molte questioni ancora aperte in materia di pedopornografia.
Un ulteriore limite emerge nel dibattito sui deepfakes: la corsa alla criminalizzazione, specie in relazione alla mera creazione di immagini non seguita da una loro diffusione, finisce per privilegiare un uso simbolico del diritto penale, che mira a colpire le piattaforme; ossia gli attori che consentono di realizzare i materiali in questione e allo stesso tempo ne possono disporre la rimozione. Lo studio si inserisce nel quadro più ampio dell’eco-sistema digitale, dove l’immagine fluttua senza confini stabili, mentre ampie porzioni del suo controllo sono in mano a internet providers, in un quadro regolatorio complesso che intreccia policy private (interne alle piattaforme) e stringenti obblighi di controllo e rimozione dettati dalla legislazione europea e da quelle nazionali.
[1] Sia consentito il riferimento a C. Salvi, Emerging trends in criminalising deepfake pornography: challenges and perspectives, in G. Vermeulen – N. Peršak – S. De Coensel (eds.), Researching the boundaries of Sexual integrity, gender violence and image-based abuse, in Revue Internationale de Droit Pénal, 95, 2, 2024, p. 5 ss e C. Salvi, The Challenges of Deepfake Technology in the Context of Political Disinformation, in M. Bergstrom – V. Mitsilegas (eds.), EU Law in the Digital Age, Hart, 2025, p. 185 ss..
[2] Per un’analisi generale sulla Legge n.132/2025, si veda su questa Rivista B. Fragasso, Profili penalistici della legge sull’intelligenza artificiale: osservazioni a prima lettura.
[3] C. Salvi, Emerging trends in criminalising deepfake pornography: challenges and perspectives, cit.