Sintesi dei risultati di una ricerca condotta per una tesi di dottorato discussa ad aprile 2023 presso l'Università degli Studi di Milano
*Contributo destinato alla pubblicazione nel fascicolo n. 6/2023.
1. Come è noto, il 15 giugno 2023 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge, su iniziativa del Ministro della Giustizia Carlo Nordio, che contiene la proposta di abrogare l’art. 323 c.p. Come forse non è più nemmeno il caso di ricordare, l’abuso d’ufficio aveva subito un’ennesima riformulazione ad opera d.l. 16 luglio 2020, n. 76, conv. in l. 11 settembre 2020, n. 120 (mediaticamente noto come «decreto-semplificazioni»), il quale era intervenuto – nel pieno della pandemia e nell’ottica di scongiurarne le ricadute economiche – restringendo l’ambito applicativo della fattispecie onde escludere la rilevanza penale delle condotte tenute in violazione di regolamenti, di norme di principio e di norme non vincolanti. A quanto pare, però, l’intervento non si è rivelato soddisfacente, nel senso che non ha placato la “paura della firma”: una percezione del “rischio penale” che avrebbe l’effetto di paralizzare i funzionari al momento dell’assunzione di scelte utili per la collettività. L’abuso d’ufficio continua, così, ad occupare la scena del dibattito pubblico e parlamentare, che si è polarizzato su tre scelte alternative: l’abolizione totale (come nella proposta del Governo), la riformulazione in senso restrittivo (come in una proposta d’iniziativa parlamentare, che mira a espungere dall’ambito di rilevanza penale il c.d. “abuso a vantaggio”[1]), o la trasformazione in illecito amministrativo (come in un’altra proposta d’iniziativa parlamentare)[2]. Autorevoli opinioni sono state espresse anche sulle pagine di questa Rivista[3], oltre che nel corso delle audizioni di esperti durante l’esame di disegni di legge d’iniziativa parlamentare presentati alla Camera.
2. In questa sede, traendo spunto da una ricerca condotta per la nostra tesi di dottorato discussa ad aprile 2023 presso l’Università degli Studi di Milano[4], cerchiamo di fornire un contributo al dibattito esponendo i risultati di una ricerca di tipo statistico-criminologico da noi condotta su un campione di circa 500[5] sentenze: tutte quelle massimate dalla Corte di cassazione tra il 1997 e oggi.
L’obiettivo della nostra analisi è capire quali siano gli esiti più frequenti dei procedimenti che giungono in Cassazione, quali i soggetti coinvolti (sindaci o altri detentori di cariche elettive, funzionari, impiegati tecnici ecc.), quale il tipo di discrezionalità esercitata (politica, amministrativa, tecnica), quale il settore di attività nel quale gli abusi sono di solito commessi (edilizio, sanitario, degli appalti pubblici) e quale il tipo di condotta posta in essere (di sfruttamento della propria posizione per arricchire sé stessi o altri o prevaricatoria).
La scelta dei profili su cui concentrarsi non è casuale: quanto ai soggetti attivi, la politica insiste nel ritenere i sindaci bersagli privilegiati di iniziative giudiziarie infondate e dunque nel proporre l’esclusione della responsabilità penale nei (soli) loro confronti; come vedremo, tuttavia, l’idea che i sindaci siano coinvolti in via privilegiata in procedimenti per abuso d’ufficio non trova riscontro nei dati.
Alla varietà dei soggetti coinvolti corrisponde una diversità nel tipo di discrezionalità esercitato: per ridurre l’ingerenza della magistratura negli spazi riservati all’amministrazione è stato proposto in dottrina di differenziare la risposta penale a seconda che il p.u./i.p.s. eserciti una discrezionalità politica, amministrativa o tecnica; calarci nella concretezza delle vicende oggetto di incriminazione ci ha permesso di farci un’idea in merito all’efficacia di una simile soluzione ai fini di contrastare la c.d. “sindrome della firma”.
Ancora: l’idea che alcuni settori di attività potessero essere interessati con maggior frequenza da contestazioni a titolo di abuso d’ufficio ci è sorta dal confronto con l’ordinamento francese ma anche dalle sollecitazioni di una parte della dottrina italiana, che propone di restringere l’ambito applicativo dell’abuso d’ufficio fino a includervi solo le condotte poste in essere nel settore sanitario e in quello degli appalti pubblici.
Infine, distinguere le condotte “affaristiche” e “favoritrici” (sfruttamento della propria posizione per arricchirsi o arricchire altri) e “prevaricatorie” per comprendere quali e quante vicende concrete integrino le tre condotte descritte dall’art. 323 c.p. potrebbe rivelarsi utile allo studioso per cogliere l’impatto di un’eventuale abolitio criminis e in particolare per capire: 1) quali e quanti fatti rimarrebbero esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 323 c.p. riformato (e quali sono da considerarsi già esclusi a seguito delle modifiche apportate dal c.d. «decreto-semplificazioni») 2) quali condotte integrano o integrerebbero ipotesi di reato diverse ed eventualmente più gravi o sono o sarebbero suscettibili di dar luogo a responsabilità extra-penale (civile, erariale, disciplinare) 3) quali comportamenti sono oggetto di obblighi di incriminazione previsti a livello sovranazionale.
Siamo consapevoli che l’analisi statistico-criminologica qui condotta ha un “punto debole”: quello di concentrarsi sulle sole sentenze massimate e non su tutte le pronunce emesse. La scelta è dovuta a ragioni numeriche: le sentenze massimate sono circa 1/10 del totale, il che ne rende l’analisi inevitabilmente più accurata; tuttavia, noi riteniamo che anche un’indagine “a campione” sia in grado di offrire un quadro piuttosto affidabile delle situazioni in cui tipicamente vengono ravvisati reati di abuso d’ufficio. D’altronde, l’analisi di campioni randomici è normalmente ritenuta statisticamente rilevante nell’ambito delle c.d. “scienze dure” (si pensi alla medicina).
3. Incominciamo col riportare gli esiti dei giudizi di legittimità. La dottrina penalistica (ma anche la stampa) si sono concentrate sul rapporto sbilanciato tra il numero delle iscrizioni a R.G.N.R. (considerato elevato) e quello relativo alle condanne definitive (decisamente esiguo)[6]. La nostra analisi, dedicata alla giurisprudenza massimata della Cassazione, è silente sul punto; essa, tuttavia, illumina sul numero delle condanne che “reggono” al vaglio della Suprema Corte e dunque sulla fondatezza delle relative contestazioni, oltre a consentire qualche riflessione sull’incidenza che alcuni fenomeni (in particolare, la prescrizione) hanno nel determinare lo scarto tra il numero delle contestazioni e il numero delle condanne definitive.
A parte le 10 sentenze emesse in fase cautelare, il numero delle pronunce prese in considerazione in questa prima fase dell’indagine ammonta a 356. Di queste, 111 confermano la condanna inflitta nei gradi di merito, mentre 85 l’annullano; per quanto riguarda le sentenze assolutorie emesse nei precedenti gradi di giudizio, 42 sentenze di Cassazione le confermano, mentre 24 le annullano. Complessivamente, quindi, si può osservare, da un lato (ma si tratta di una considerazione di ordine generale, che sarebbe interessante poter formulare rispetto alla totalità dei reati) che la Suprema Corte ribalta l’esito dei giudizi di merito quasi nella metà dei casi (42 %).
Per quanto riguarda, invece, più specificamente, l’abuso d’ufficio, nella metà dei casi la S.C. giunge a un’affermazione di sostanziale fondatezza dell’addebito (51,5 %, tra sentenze che confermano la condanna inflitta nei gradi di merito e pronunce che annullano l’assoluzione); ci sembra di poter sottolineare come alcuni di questi casi siano di gravità tutt’altro che trascurabile: si pensi, solo a titolo di esempio, alle ipotesi di mancata astensione e di assegnazione di posti di lavoro o incarichi di consulenza a membri della propria famiglia o a società di cui l’agente detiene partecipazioni[7] o alle ipotesi di mancato rinnovo di incarichi o al demansionamento di dipendenti o strutture per scopi ritorsivi[8] – che danno luogo a un asservimento della funzione a scopi privati dell’agente – o alle numerosissime ipotesi di rilascio di permessi di costruire illegittimi o di mancata emanazione di ordini di demolizione doverosi[9].
Interessante il dato sulla prescrizione, pronunciata in 92 sentenze, quindi in ¼ dei casi (26 %), mentre è del tutto trascurabile quello relativo ad amnistia e indulto (dichiarati ognuno in un solo caso).
Venendo, infine, alle sentenze emesse in sede cautelare, quelle che confermano l’applicazione delle misure sono 6, quelle che l’annullano o ne confermano l’annullamento già pronunciato nei precedenti gradi di giudizio sono 4.
Se, poi, limitiamo l’analisi alle sentenze massimate emesse dopo l’entrata in vigore della riforma (24 in totale), notiamo una riduzione della percentuale delle pronunce in cui è riconosciuta la fondatezza dell’addebito (29 %) – ma ciò è dovuto soprattutto al numero elevato di sentenze di annullamento della condanna (42 %) pronunciata nei precedenti gradi di giudizio, a sua volta da attribuirsi soprattutto al riconoscimento dell’intervenuta abolitio criminis parziale. Anche rispetto a questo cluster di sentenze, la prescrizione ha un peso significativo (la dichiarano 8 sentenze: 1/3 del totale).
4. Un altro obiettivo della nostra analisi è comprendere che qualifica rivestano e che tipo di discrezionalità esercitino i soggetti più frequentemente coinvolti in procedimenti per abuso d’ufficio. L’indagine in ordine alla qualifica rivestita dal soggetto attivo è stata condotta con due obiettivi. Il primo è comprendere se davvero alcuni titolari di cariche pubbliche elettive (in particolare, i sindaci) siano destinatari privilegiati di contestazioni ex art. 323 c.p., e se, dunque, abbia senso prevedere – come è stato proposto mediante i Disegni di Legge presentati dai senatori Parrini (PD) e Santangelo (M5S) nella scorsa legislatura – meccanismi di esclusione della responsabilità penale nei soli loro confronti.
Il secondo obiettivo è verificare l’opportunità di diversificare la risposta penale in ragione del tipo di discrezionalità (tecnica, amministrativa o politica) esercitata, che tendenzialmente varia a seconda della carica pubblica rivestita. Si consideri, infatti, che, come anticipavamo, al fine di mantenere netta la separazione tra i poteri e di scongiurare la c.d. “sindrome della firma” (dovuta, appunto, al presunto sconfinamento della magistratura sul terreno riservato all’amministrazione) è stato suggerito in dottrina di escludere il sindacato del giudice penale sugli atti connotati da discrezionalità politica, che riguarda il merito delle scelte di indirizzo, mantenendolo, invece, fermo sulle scelte connotate da discrezionalità amministrativa – che si esplica nel bilanciamento tra i contrapposti interessi in gioco – o tecnica, per l’esercizio della quale l’agente si avvale di cognizioni tecniche o scientifiche[10].
Per formarci – a partire dalle vicende concrete – un’opinione in merito all’efficacia di una simile diversificazione rispetto allo specifico obiettivo di combattere la paura della firma nel settore amministrativo, abbiamo distinto i sindaci e gli altri soggetti eletti (i quali esercitano discrezionalità politica), dai funzionari pubblici con ruoli tecnici (dirigenti a vario titoli di Comuni o di altri enti pubblici territoriali, ma anche presidi, direttori di carceri, medici in servizio presso il Servizio Sanitario Nazionale…), nonché dai magistrati e dagli appartenenti alle forze dell’ordine, i quali, pur esercitando una discrezionalità di tipo tecnico, godono, secondo noi, di “margini di manovra” particolarmente ampi e sono in grado di incidere, esercitando i loro poteri, sui diritti fondamentali delle persone (le forze dell’ordine sono titolari dell’uso della forza, il che consente loro di compromettere l’incolumità ma anche la dignità, la sicurezza e la libertà dei privati; i magistrati possono limitare la libertà personale). L’analisi così condotta ci ha consentito di “calarci nel vivo” delle vicende concrete, per esprimere un parere in merito all’efficacia di una diversificazione della responsabilità penale in ragione del tipo di discrezionalità esercitato rispetto all’obiettivo di contrastare la “paura della firma”.
5. Partendo dai sindaci, l’A.N.C.I. (l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani) ha chiesto a gran voce l’abolizione del reato di abuso d’ufficio per consentire l’efficace gestione dei consistenti fondi del P.N.R.R.[11]: i sindaci lavorerebbero “in trincea”[12], sarebbero bersaglio costante di iniziative giudiziarie strumentali e, di conseguenza, esiterebbero nell’assunzione di scelte che potrebbero costargli la libertà e (prima e soprattutto) la faccia. Che i sindaci siano frequentemente protagonisti di vicende giudiziarie incentrate sull’abuso d’ufficio è vero: su 345 sentenze analizzate[13], quelle che li riguardano sono 82 (di cui meno della metà giungono a un’affermazione di fondatezza dell’addebito: 37 % tra conferme di condanne e annullamenti di assoluzioni); ma è altrettanto corretto affermare che altri detentori di cariche elettive (Presidenti di Regione o di Provincia, consiglieri comunali o assessori) vi sono implicati quasi altrettanto frequentemente (le sentenze che li riguardano sono 72, di cui 24 conferme di condanne e 4 annullamenti di assoluzioni), così che appare – almeno a prima vista – irragionevole prevedere un’attenuazione o un’esclusione della responsabilità penale solo per i sindaci, considerando anche che tutti gli eletti, esercitando un mandato conferitogli direttamente dai cittadini, dovrebbero godere di “spazi di manovra” egualmente ampi. Un’eventuale disposizione che si proponga di limitare la responsabilità dei soli sindaci apparirebbe – secondo noi – quantomeno sospetta di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost.; trattandosi di una norma penale di favore (ossia di una disposizione che «stabilisc[e], per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni»[14]), la disposizione sarebbe sindacabile in malam partem dalla Consulta.
In ogni caso, il gruppo più numeroso di sentenze analizzate riguarda pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio esercenti discrezionalità tecnica: in totale, si tratta di 176 pronunce (di cui il 58 % sono di annullamento dell’assoluzione o di conferma della condanna), tra cui molte aventi come protagonisti dipendenti o consulenti esterni di aziende pubbliche o di enti territoriali, ma anche direttori di carceri, presidi, professori e ricercatori universitari, medici, direttori di strutture sanitarie o altri esercenti professioni sanitarie. Soggetti di questo tipo, assumendo decisioni che non hanno a che vedere con valori o interessi di segno opposto, quanto, piuttosto, con il corretto utilizzo di nozioni scientifiche o tecniche, esercitano un tipo di discrezionalità maggiormente controllabile, rispetto al quale un vaglio più pregnante da parte della magistratura potrebbe apparire giustificabile[15]; è vero anche, d’altra parte, che gli strumenti a loro disposizione, essendo non di rado ad elevato contenuto tecnico, risultano spesso meno “maneggevoli” per il giudice e il pubblico ministero, i quali rischiano – sovrapponendo la propria valutazione a quella del funzionario per verificare che la discrezionalità sia stata utilizzata con l’intento di perseguire l’interesse pubblico – di cedere a giudizi semplicistici e, sottovalutando la complessità di determinate decisioni, giungere facilmente a considerarle (col “senno del poi”) manifestamente inopportune, tanto palesemente errate da non poter che essere state viziate all’origine dalla volontà di perseguire un interesse che nulla aveva a che vedere con quello pubblico. Esemplificando: la scelta di compiere un’opera pubblica e di affidarne i lavori a una determinata impresa privata è sì tecnica, ma anche molto complessa: così che accadrà spesso che essa si riveli ex post inopportuna a causa di un errore; facilmente, però, potrà accadere che il P.M. o il giudice sottovalutino la complessità delle valutazioni sottese all’assunzione di quella scelta, così da giungere ad affermare (erroneamente) che esse avrebbero dovuto apparire ex ante manifestamente sbagliate, e che, nondimeno, la scelta – pur palesemente inopportuna – sia stata assunta per perseguire uno scopo privato, diverso rispetto alla realizzazione del miglior interesse pubblico. Lo stesso potrebbe dirsi rispetto a molte delle valutazioni tecniche quotidianamente compiute dai soggetti attivi inquadrabili all’interno di questa categoria: oltre alla nutrita casistica sugli appalti, si pensi alle scelte in merito ad assunzioni o ad affidamenti di incarichi (che coinvolgono valutazioni in merito alle necessità dell’ente e alla professionalità dell’assunto o del beneficiario, queste ultime non sempre ancorabili a parametri rigorosamente oggettivi e predeterminabili), al rilascio di autorizzazioni a costruire o a svolgere attività (che comportano l’espressione di giudizi in merito all’affidabilità del destinatario dell’autorizzazione, alla nocività delle sostanze eventualmente impiegate, al soddisfacimento di esigenze produttive, all’impatto ambientale a lungo termine del rilascio…), all’inflizione di sanzioni disciplinari, all’organizzazione interna di un ufficio o di un reparto, alle strategie cliniche da adottare rispetto a un determinato paziente (consigliargli di rivolgersi a una clinica privata o a un ospedale pubblico?) e altre. Il problema si acuisce se si considera che per accertare la sussistenza del reato (e, quindi, anche il dolo) non possono essere disposte le intercettazioni e che quindi la magistratura si avvale spesso – e, ci sembra di poter dire, inevitabilmente – di indici presuntivi, tra i quali la macroscopicità della violazione di legge o l’errore marchiano sull’interpretazione: è chiaro come l’errore che appare “marchiano” ex post potrebbe non apparire altrettanto evidente ex ante, soprattutto se si prendono in considerazione quelle decisioni assunte frettolosamente, per gestire situazioni emergenziali o comunque urgenti (si pensi alle misure di contenimento del contagio adottate nel periodo pandemico).
All’interno della categoria dei “tecnici”, abbiamo poi distinto i magistrati (li riguardano 13 sentenze, di cui 3 di conferma della condanna inflitta e di 2 di annullamento dell’assoluzione) e gli esponenti delle forze dell’ordine (le pronunce contro di loro sono 26, di cui 10 di conferma della condanna e 1 di annullamento dell’assoluzione): persone, come abbiamo già avuto occasione di sottolineare, che godono di una discrezionalità (tecnica, ma) particolarmente ampia e incisiva, in quanto possono (e devono) assumere decisioni che hanno a che vedere con la tutela dei diritti fondamentali delle persone, la quale non può realizzarsi che mediante la restrizione della libertà di altri, i quali il godimento dei diritti fondamentali dei primi minaccino. Il potere conferito a questi soggetti (in particolare, ai magistrati) è di solito ampiamente discrezionale: la sua distorsione dovrà ritenersi, ormai, a nostro avviso, penalmente irrilevante, in quanto le norme di volta in volta violate non saranno – di solito – tali da non lasciare all’agente «margini di discrezionalità»[16]. Si pensi al Pubblico Ministero: la forma di abuso più temuta è senz’altro l’esercizio dell’azione penale per scopi diversi da quello di assicurare l’applicazione della legge penale (motivi politici, di rancore o antipatia personale, volontà di acquisire visibilità…), ma anche il mancato svolgimento di indagini o la mancata formulazione di una richiesta di rinvio a giudizio per scopi privati potrebbero produrre distorsioni non meno significative[17]. Tuttavia, la scelta in ordine al come svolgere le indagini e al se esercitare l’azione penale è caratterizzata da un margine di discrezionalità talmente ampio da risultare anche concretamente quasi insindacabile. Oggi, quindi, l’iscrizione di una notizia di reato a carico di una persona sul cui operato il magistrato non nutra alcun sospetto, effettuata col solo intento di danneggiare un nemico politico o un odiato vicino di casa, sarà condannata all’irrilevanza penale: perché il potere di iscrivere un nome nel registro degli indagati è (ampiamente) discrezionale, così che in una condotta come quella esemplificata nessuna violazione di norma vincolante potrà essere riscontrata.
6. In definitiva, alla luce dell’analisi da noi condotta, non sembrerebbe vero che i sindaci siano un bersaglio privilegiato del presunto accanimento delle procure: le sentenze che li riguardano sono di poco più numerose di quelle che hanno ad oggetto detentori di altre cariche elettive, ma di molto inferiori a quelle che invece vedono come protagonisti dei ‘tecnici’ (dirigenti di uffici di enti territoriali, medici, professori universitari…). A ben vedere, però, si deve osservare che la prima causa dell’atteggiamento difensivo dei pubblici amministratori non è tanto il loro effettivo coinvolgimento in vicende giudiziarie né, tanto meno, l’esito di queste, quanto, piuttosto, la percezione del rischio di incorrere in responsabilità che pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio hanno (a torto o a ragione). A questo proposito, ci è parso interessante uno studio[18] che ha analizzato la frequenza con cui i pubblici amministratori stipulano polizze assicurative per la responsabilità erariale, considerandola come un indicatore del rischio percepito di incorrere in procedimenti (contabili, non penali: ma il dato potrebbe comunque essere di un qualche interesse), notando come i sindaci e gli altri soggetti eletti stipulino polizze con altrettanta facilità rispetto ai tecnici (il che indica un rischio percepito uguale tra le due categorie), ma questi ultimi corrispondano premi significativamente più elevati (il che indica che il rischio reale di rispondere del danno cagionato all’erario è ben più alto per i tecnici). Al di là del dato numerico, comunque, a noi pare che una norma che escluda la responsabilità penale dei soli vertici dell’amministrazione comunale – e non, tanto per fare un esempio, quella dei Presidenti di regione – possa essere considerata di favore, e quindi risulti sindacabile in malam partem dalla Corte costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost., in quanto produttiva di un’ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti tutti titolari di mandati elettivi. L’idea di distinguere sulla base del tipo di discrezionalità (tecnica, amministrativa o politica) esercitata dai soggetti attivi, escludendo la rilevanza penale dei soli abusi di discrezionalità politica e al più amministrativa, poi, a noi – almeno a prima vista – non convince a pieno: perché, se in astratto è senza dubbio corretto affermare che le nozioni tecnico-scientifiche sono univoche e che quindi il giudizio, compiuto dal giudice, sul loro corretto utilizzo è connotato da un margine più risicato di discrezionalità, in concreto la lettura delle sentenze ci ha dato l’impressione che le valutazioni tecniche siano spesso così complesse, da renderne ardua una revisione da parte del magistrato, il quale potrebbe essere portato a sottovalutarne la complicatezza e quindi a cedere a giudizi semplicistici ispirati dalla logica del “senno del poi”. Il rischio di ritenere erroneamente dimostrato l’abuso (ossia la strumentalizzazione del potere, impiegato in vista del perseguimento di uno scopo non pubblico) a partire dalla semplice illegittimità dell’atto o illiceità del comportamento serbato ci pare, anzi, particolarmente elevato nel caso di scelte tecniche complesse.
7. Analizzando le sentenze massimate emesse dal Supremo Collegio tra il 1997 e il 2022 da un altro punto di vista, si può notare come le contestazioni per abuso d’ufficio riguardino con frequenza determinati ambiti di attività.
In particolare, le vicende analizzate riguardano spesso (79 sentenze) il settore dell’edilizia, nel cui ambito il rilascio di permessi di costruire illegittimi (perché riguardanti opere non edificabili, poste in zone soggette a vincoli previsti dal P.R.G., realizzato in assenza di previ controlli in ordine alla conformità dell’opera costruenda allo strumento urbanistico od omettendo la riscossione degli oneri dovuti) rappresenta lo strumento per far conseguire a terzi indebiti vantaggi patrimoniali, corrispondentemente danneggiando il territorio o – nei casi più rari in cui la condotta abusiva consista nella mancata esazione degli oneri – il patrimonio dell’ente; un altro settore interessato con una certa frequenza dalle sentenze in tema di abuso d’ufficio è quello della sanità (36 sentenze, riguardanti perlopiù favoritismi nell’assegnazione di incarichi o demansionamenti posti in essere per antipatia o ritorsione, ma anche “collusioni” fra medici e cliniche private consistenti nell’affidamento di servizi a prezzi non convenienti per l’ente pubblico o nell’indebito accaparramento di pazienti, indirizzati a cliniche private per il compimento di esami e trattamenti accessibili anche presso strutture sanitarie pubbliche); frequentemente, poi, gli abusi sono commessi nell’ambito di procedure di selezione pubblica per il conferimento di incarichi, l’assegnazione di posti di lavoro o l’accesso a corsi di studio (44 sentenze), oppure nel corso di procedure per il rilascio di autorizzazioni allo svolgimento di determinate attività (commerciale, farmaceutica, di autonoleggio, di ristorazione… in totale, si tratta di 11 sentenze).
23 sentenze riguardano, poi, il settore degli appalti, che infatti è quello in cui fatti lato sensu riconducibili al paradigma corruttivo avvengono con maggior frequenza[19]: la casistica mostra soprattutto ipotesi di favoritismi nell’assegnazione dei lavori, di mancato rispetto delle procedure previste dalla legge, di affidamenti posti in essere in assenza dei presupposti previsti dalla legge – per esempio, di necessità e urgenza –, nei confronti di persone sfornite dei requisiti necessari al compimento dell’opera o per corrispettivi esorbitanti. La convergenza delle contestazioni per abuso d’ufficio in determinati settori di attività ci pare un dato di un qualche interesse: alcuni autori[20] – considerando l’art. 323 c.p. una “fattispecie avamposto”, la quale, sanzionando il conflitto d’interessi, sarebbe in grado di offrire una tutela della Pubblica Amministrazione a spettro più ampio rispetto, per esempio, alle fattispecie corruttive – ritengono opportuno selezionare quei settori che, per la loro importanza (e, aggiungiamo noi sulla base dei dati appena esposti, per la ricorrenza di situazioni di conflitto d’interessi che presentano) appaiono meritevoli di una tutela penale più avanzata.
Attenzioni ha suscitato, per esempio, il settore sanitario[21], fortemente interessato da fenomeni corruttivi ma anche da situazioni di maladministration e da comportamenti opportunistici – dovuti, si ritiene, alla presenza di asimmetrie informative causate dall’elevata complessità delle prestazioni nonché alla centralità e irrinunciabilità del diritto alla salute, che fa del paziente una “parte” debole del rapporto instaurato con i sanitari e le strutture – nonché segnato da conflitti d’interessi (tra i medici o le strutture sanitarie e le case farmaceutiche o le aziende produttrici di macchinari e materiali; tra S.S.N. e cliniche convenzionate; tra libera professione e attività ospedaliera[22]; persino tra medici e pompe funebri, nei malaugurati casi di decessi intra moenia).
Quanto al settore degli appalti, poi, si può segnalare che vi sono ordinamenti europei (in particolare, quello francese) che, pur non conoscendo una fattispecie generale di abuso come l’art. 323 nostrano, sanzionano specificamente l’attribuzione di un ingiustificato vantaggio mediante la violazione di una norma di legge o di regolamento che abbia lo scopo di garantire l’accesso libero al mercato e l’eguaglianza tra gli operatori economici[23]. La disposizione, destinata ad applicarsi al solo settore degli appalti pubblici, ha lo scopo di assicurare la morale dei traffici economici ma anche quello di garantire la concorrenza fra le imprese e, quindi, l’eguaglianza tra gli operatori economici[24]. L’ipotesi di concentrare la tutela penale nel settore degli appalti è stata presa in considerazione anche dalla dottrina italiana[25]. La proposta di prevedere una “norma avamposto” sulla falsariga dell’art. 323 c.p. solo per alcuni settori di attività suscita qualche interesse; osserviamo, però, che la scelta dei settori da privilegiare meriterebbe un’approfondita riflessione, dato che molteplici sono i criteri in base ai quali questa potrebbe essere effettuata: la frequenza con cui gli abusi si verificano (quelli commessi nel settore edilizio, per esempio, sono ricorrenti), il danno patrimoniale che le condotte cagionano all’amministrazione (nel settore degli appalti, esso sarà spesso molto ingente, perché immense risorse pubbliche vengono destinate a imprese che non sono in grado di offrire alcun corrispettivo), la loro meritevolezza di pena (l’idea che si possa sfruttare la fragilità di un ammalato per indurlo a sottoporsi a esami costosi e magari inutili presso la propria clinica privata suscita un certo disgusto).
8. A nostro modo di vedere, è anche interessante ripartire le sentenze analizzate sulla base del tipo di comportamento posto in essere: l’art. 323 c.p., infatti, include nel suo ambito di applicazione condotte consistenti nello sfruttamento della propria posizione per attribuire a terzi un vantaggio patrimoniale, condotte consistenti nello sfruttamento della propria posizione per accaparrarsi un vantaggio patrimoniale e condotte che siamo portati a definire “prevaricatrici” in quanto consistono nell’inflizione di sacrifici a terzi per motivi biasimevoli (di odio, ritorsione, vendetta…), senza risolversi nell’indebita realizzazione di interessi patrimoniali. Comprendere quanti e quali comportamenti concreti siano suscettibili di integrare ognuna di queste condotte tipiche aiuta – secondo noi – a valutare l’impatto di un’eventuale e futura abolitio criminis (nonché dell’abolizione parziale già realizzata con la riforma del 2020) e ad esprimere un parere in merito alla sua opportunità. Tale ultimo obiettivo si consegue, infatti – a nostro parere – anche interrogandosi in ordine a quali condotte, oggi o prima della riforma del 2020 integranti una delle tre condotte tipiche di abuso, siano suscettibili di ricadere anche nell’ambito applicativo di fattispecie differenti.
9. La situazione di gran lunga più ricorrente nella prassi (227 sentenze) è quella del pubblico amministratore che sfrutta la sua posizione per conferire ad altri vantaggi patrimoniali indebiti (perché attribuiti in violazione delle procedure prescritte o a persone non vantanti i requisiti richiesti dalla legge o, ancora, per motivi elettorali o politici in senso lato) consistenti, per esempio, nell’affidamento di un appalto, nel rilascio di un’autorizzazione allo svolgimento di un’attività, nell’assegnazione di un incarico o di un posto di lavoro, nel rilascio di un nulla osta a costruire un’opera edilizia illegittima, nell’attribuzione di un compenso o di un rimborso non dovuti e altro ancora. In alcune di queste situazioni (per esempio, affidamento di appalti o assegnazione di posti di lavoro) siamo al cospetto di condotte che potremmo definire lato sensu distrattive, nel senso che consistono nell’attribuzione di somme di denaro pubblico (corrispettivo per l’opera compiuta, retribuzioni…) a soggetti che non ne avrebbero diritto e che non saranno in grado di offrire, come corrispettivo della somma ricevuta, una prestazione di valore equivalente (per esempio: l’appalto affidato a un’impresa inidonea o il posto di lavoro assegnato a una persona priva delle competenze necessarie rappresenteranno uno spreco di denaro pubblico, perché il lavoro compiuto o la prestazione lavorativa resa avranno un valore, se non nullo, comunque certamente inferiore a quello della somma di denaro ricevuta). Si tratta quindi di situazioni che, concettualmente, si situano “ai confini” col peculato e che dunque possono (qualora la condotta tipica di abuso sia realizzata mediante la violazione di disposizioni non vincolanti) o potrebbero in futuro ricadere entro l’ambito applicativo dell’art. 314 c.p., sempre che si aderisca all’orientamento giurisprudenziale estensivo ormai prevalente in base al quale la norma sanzionerebbe anche la distrazione.
Altre condotte – per esempio, quelle consistenti nel rilascio di illegittime autorizzazioni a costruire o di permessi illegittimi a svolgere determinate attività – difficilmente potranno essere ricondotte al paradigma distrattivo; in casi come questi, non è facile visualizzare una somma di denaro che viene trasferita dal patrimonio della P.A. a quello di un privato: si tratterà, piuttosto, di fatti che ledono beni giuridici diversi rispetto al patrimonio della Pubblica Amministrazione (p.es., l’ambiente o il territorio, oppure la sicurezza dei cittadini, minacciata dall’esercizio di attività pericolose da parte di persone sfornite dei requisiti necessari per svolgerle), grazie alle quali a un privato è consentito di arricchirsi. In alcuni casi sembra anche di poter intuire, leggendo la sentenza, che l’assegnazione di un vantaggio a terzi rappresenta il corrispettivo per il soddisfacimento, da parte di costoro, di un interesse proprio del pubblico amministratore[26]: è quel che avviene, per esempio, in Cass., Sez. III, 17 gennaio 2014 (dep. 6 marzo 2014), n. 10810, Rv. 258893, imp. Altieri e al., in cui, due giorni prima delle elezioni il sindaco, i componenti della Giunta e due dirigenti comunali annullavano gli avvisi di pagamento dell’ICI a favore di alcuni soggetti in violazione delle norme urbanistiche. Condotte di questo tipo ci sembrano “assomigliare” alla corruzione, cui, però, potrebbero essere ricondotte solo fornendo una lettura amplissima del concetto di “altra utilità”.
All’interno di una seconda categoria rientrano le ipotesi, molto meno numerose delle prime (34 casi), in cui l’agente pubblico sfrutta la propria posizione per conseguire un indebito vantaggio per sé stesso. Vi rientrano, per esempio, le condotte di medici in servizio presso il S.S.N., i quali consiglino ai pazienti di rivolgersi a studi privati propri o presso i quali abbiano partecipazioni per l’effettuazione di interventi o esami che sarebbero esperibili anche in ospedale, oppure i comportamenti di dipendenti pubblici (di solito, con qualifica dirigenziale) consistenti nel farsi retribuire come liberi professionisti per il compimento di attività cui già sarebbero tenuti in forza del loro contratto di lavoro o comunque nello sfruttare i contatti acquisiti prestando la propria opera in favore dell’ente per concludere lucrosi contratti di consulenza privata. Ancora, potrebbero rientrare all’interno del gruppo che qui si sta esaminando le condotte di sindaci, consiglieri comunali o altri detentori di cariche elettive i quali prendano parte a delibere con cui si stabilisca l’attribuzione di vantaggi a loro favore (modifiche del P.R.G. che interessino aree su cui esercitino diritti reali, riconoscimento di debiti da loro assunti…). Alcuni di questi fatti (in particolare, i fatti appropriativi in senso stretto, consistenti per esempio nell’utilizzo del fax o dell’auto di servizio per finalità private) si situano al confine col peculato, e potrebbero quindi ricadere entro l’ambito applicativo dell’art. 314 c.p. qualora non fossero più riconducibili a fattispecie differenti (come l’art. 323 c.p.); altri consistono, piuttosto, nello sfruttamento della propria posizione (di medico, per esempio) e della fiducia che questa suscita per indurre altri al compimento di una scelta (per esempio, quella di rivolgersi a una clinica privata) che non sarebbe stata effettuata in assenza di sollecitazione: si tratta, quindi, a nostro avviso, di fatti più simili a truffe, ma che in alcuni casi sono stati ricondotti nell’alveo della concussione[27]. È utile sottolineare che non tutti questi fatti impoveriscono la P.A.: condotte del tipo dell’ultima qui esemplificata, per esempio, sono indifferenti per l’ente (addirittura, consentono all’amministrazione un risparmio!) ma danneggiano il cittadino.
Oltre ai comportamenti consistenti nello sfruttamento della propria posizione per conseguire un vantaggio patrimoniale o per attribuirlo a terzi, abbiamo individuato una classe d’ipotesi che abbiamo identificato come “prevaricazioni”: si tratta di comportamenti mediante i quali l’agente pubblico utilizza la propria posizione per cagionare un danno “gratuito” a un privato, ossia di condotte attraverso le quali il p.u. o l’incaricato di p.s. (ma, di solito, si tratterà di pubblici ufficiali: in particolare, magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine) non “guadagna nulla” dalla condotta abusiva, se non la “soddisfazione” di rifarsi di un’offesa patita, di infliggere una sofferenza a un nemico, di guadagnare consenso attaccando un personaggio noto.
In sintesi, si verifica, in casi come questi, una torsione del potere, esercitato non per realizzare lo scopo per il quale questo è attribuito ma nemmeno per conseguire un vantaggio patrimoniale, bensì per soddisfare una pulsione, dar sfogo a un sentimento negativo (di odio, inimicizia, vendetta, sete di notorietà…), farsi portatore di istanze che non spetti all’agente realizzare (si pensi al Pubblico Ministero che si faccia carico di ridistribuire la ricchezza perseguendo con ferocia soltanto i presunti autori di reati economici). Solo per farsi un’idea dei comportamenti presi in considerazione in questo paragrafo, si pensi al caso di un carabiniere che ordini a due ragazze di mostrare i loro documenti e le obblighi ad attendere l’arrivo di una pattuglia solo per ritorsione, perché le ragazze avevano rifiutato le sue avances (Cass., Sez. VI, 5 luglio 2011, dep. 30 settembre 2011, n. 35597, Rv. 250779, imp. Barbera), o a quello di un sindaco che revochi l’incarico a un dirigente candidatosi, a sua volta, alla carica di sindaco (Cass., Sez. 6, 13 aprile 2018, dep. 4 maggio 2018, n. 19519, Rv. 273099, imp. Filizola) oppure, ancora, a quello di un Pubblico Ministero che chieda il rinvio a giudizio contro l’ex della sua compagna, nei cui confronti aveva in precedenza deciso di archiviare il procedimento (Cass., Sez. VI, 14 aprile 2021, dep. 12 luglio 2021, n. 26429, Rv. 281582, imp. Ronconi).
Fatti di questo tipo (relativamente infrequenti nella prassi: noi abbiamo individuato 51 sentenze che li riguardano) differiscono profondamente dai due tipi di condotte analizzate in precedenza: si tratta infatti di comportamenti che nulla hanno a che vedere con i concetti di distrazione e di appropriazione e che assomigliano, piuttosto, agli abusi “nominati” (tra i quali rientra, per esempio, l’arresto illegale di cui all’art. 606 c.p.) nel senso che questi ultimi sembrerebbero rappresentare una species dell’abuso d’ufficio a danno, in quanto sanzionano solo alcune specifiche prevaricazioni, puntualmente descritte dalla norma volta a sanzionarle. A noi comportamenti di questo tipo appaiono particolarmente gravi, in quanto consistono nell’inflizione di ingiustificate offese ai diritti fondamentali altrui, tanto più gravi in quanto poste in essere da un rappresentante dello Stato o di altro ente pubblico. Tuttavia, qualora non si risolvano in vere e proprie violenze o minacce e qualora non integrino abusi “particolari” sono sanzionati soltanto a titolo di abuso d’ufficio; a seguito della riforma dell’art. 323 c.p. ad opera del c.d. “decreto semplificazioni”, sono da ritenersi quasi sempre penalmente irrilevanti, in quanto spesso si tratta di abusi commessi nell’esercizio di poteri ampiamente discrezionali, come quelli conferiti alle forze dell’ordine o ai magistrati.
Qualora il legislatore decidesse di abolire l’art. 323 c.p., poi, le condotte prevaricatorie risulterebbero ancora più spesso – in tutti i casi in cui non integrino abusi nominati e non siano poste in essere mediante violenze o minacce (nel qual caso, sarebbe forse ipotizzabile – ma solo a certe condizioni – la concussione) – penalmente irrilevanti. Si tratta di un esito che a noi pare criticabile: abolire l’abuso a danno significa, infatti – ci sembra – abbandonare il privato alle angherie dei detentori del potere pubblico, rendendo questi ultimi titolari del diritto assoluto a ledere – senza ragione e financo per capriccio – i diritti altrui; ne risulterebbe un sistema nel quale convivono due categorie di cittadini, gli uni soggetti all’arbitrio degli altri. Un risultato di tal fatta ci sembrerebbe porsi addirittura in contrasto con il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. (in qualche modo “rafforzato” dal richiamo all’art. 97, nel senso che la discriminazione è tanto più grave in quanto realizzata non da un privato ma da un esponente della collettività). Si tratta di un esito forse sottovalutato dal legislatore odierno.
[1] Proposta di legge Pella A.C. 716.
[2] Proposta di legge Costa A.C. 654.
[3] C. Cupelli, Sulla riforma dell’abuso d’ufficio, in questa rivista, 23 gennaio 2023 e M. Romanelli, L’insostenibile leggerezza della paura (della firma), in questa rivista, 6 febbraio 2023.
[4] C. Pagella, Abuso d’ufficio: problemi giuridici attuali e prospettive di riforma. Tesi di dottorato (tutor: Prof. Gian Luigi Gatta).
[5] Si vedrà che il numero delle sentenze varia a seconda del dato preso in considerazione: ciò dipende dal fatto che non sempre la pronuncia di Cassazione riporta dettagliatamente i fatti e dunque non sempre è possibile evincere chi sia il soggetto attivo, quale il settore in cui la condotta è stata serbata, quale la valutazione discrezionale compiuta.
[6] Alcuni dati sono riportati da C. Cupelli, Sulla riforma dell’abuso d’ufficio, in questa rivista, 23 gennaio 2023.
[7] Solo a titolo esemplificativo: Cass., Sez. VI, 25 febbraio 2021 (dep. 15 marzo 2021), n. 10067, Rv. 280717, imp. Musile Tanzi, Cass., Sez. V, 2 ottobre 2020 (28 dicembre 2020), n. 37517, Rv. 280108, imp. Danzé, Cass., sez. VI, 6 febbraio 2020 (dep. 27 febbraio 2020), n. 7972, Rv. 278354, imp. Ostellino.
[8] Ex multis Cass., sez. VI, 17 settembre 2019 (dep. 18 dicembre 2019), n. 51127, Rv. 278938, imp. Camastra (il sindaco impediva l’occupazione del suolo pubblico alla titolare di un bar per scopi ritorsivi), Cass., sez. VI, 18 luglio 2019 (dep. 31 ottobre 2019), n. 44598, Rv. 277380, imp. Garau (dequalificazione di una struttura e conseguente demansionamento del suo responsabile da parte del direttore generale dell’ospedale), Cass., Sez. VI, 13 aprile 2018 (dep. 4 maggio 2018), n. 19519, Rv. 273099, imp. Filizola (il sindaco revocava l’incarico a un dirigente che si era candidato come sindaco), Cass., Sez. V, 7 luglio 2017 (dep. 6 ottobre 2017), n. 45992, Rv. 271073, imp. Jelen (a proposito della confezione di un falso verbale di accertamento di un’infrazione amministrativa in realtà non commessa), Cass., Sez. VI, 12 giugno 2014 (dep. 18 settembre 2014), n. 38357, Rv. 260472, imp. Mangione (il sindaco revocava l’incarico a un ingegnere che aveva rigettato diverse istanze che riguardavano immobili di sua proprietà).
[9] Le ipotesi sono numerosissime. Solo a titolo di esempio: Cass., Sez. VI, 19 aprile 2017 (dep. 27 giugno 2017), n. 31594, Rv. 270460, imp. Pazzaglia (il responsabile di un ufficio tecnico del Comune autorizzava lavori di manutenzione che tali non erano: si trattava in realtà della costruzione di una nuova strada), Cass., Sez. III, 13 dicembre 2016 (dep. 31 marzo 2017), n. 16449, Rv. 269820, imp. Menna (il sindaco e il responsabile di un ufficio tecnico del Comune autorizzavano la costruzione di un alloggio antisismico in assenza di presupposti), Cass., Sez. III, 6 aprile 2016 (dep. 29 agosto 2016), n. 35577, Rv. 267633, imp. Cella (il sindaco ometteva l’adozione di misure di vigilanza così consentendo ad altri di trasformare un porticato in un ambiente chiuso).
[10] G. L. Gatta, Da “spazza-corrotti” a “basta paura”: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal Governo “salvo intese” (e la riserva di legge?), in Sist. Pen., 17 luglio 2020. Cfr. anche (ma l’opera si muove in una prospettiva che non ha a che vedere con l’obiettivo di combattere la “paura della firma”) M. C. Ubiali, Attività politica e corruzione. Sull’opportunità di uno statuto penale differenziato, Giuffré, Milano, 2020, p. 203 ss.
[11] I sindaci al Premier Draghi: ci liberi dall’abuso d’ufficio, in Il dubbio del 12 novembre 2021.
[12] L’espressione è di Renato Brunetta, il quale, all’assemblea dell’ANCI, si è impegnato a tentare la strada dell’abolizione dell’art. 323 c.p. Lo riporta Il fatto quotidiano del 10 novembre 2021.
[13] Spesso, più soggetti attivi appartenenti a “categorie” diverse concorrono nel medesimo reato: ecco perché il numero totale delle sentenze è inferiore alla somma delle volte in cui compaiono i vari soggetti attivi.
[14] Così C. cost., 8 novembre 2006, n. 394, Pres. Bile, Red. Flick, con nota di M. Gambardella, Specialità sincronica e specialità diacronica nel controllo di costituzionalità delle norme penali di favore, in CP, 2007, 467 ss., che, approfondendo le conclusioni già raggiunte da C. cost., 2 giugno 1983, n. 148, Pres. Elia, riteneva le norme penali di favore sindacabili in malam partem.
[15] È il punto di vista di G. L. Gatta, Da “spazza-corrotti” a “basta paura”: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal Governo “salvo intese” (e la riserva di legge?), in Sist. Pen., 17 luglio 2020.
[16] Anche prima della riforma del 2020, la progressiva erosione dell’area di rilevanza penale dell’abuso del potere discrezionale aveva ridotto le possibilità di applicazione dell’art. 323 c.p. agli abusi commessi dai magistrati: lo sottolinea G. Fiandaca, Sulla responsabilità penale del giudice, in Il foro italiano, 11 novembre 2009.
[17] D. Notaro, In foro illicito versari. L’abuso del processo fra dimensione etica e responsabilità penale, Giappichelli, Torino, 2015, p. 93 ss.
[18] S. Battini, F. Decarolis, L’amministrazione si difende, in Riv. Trim. dir. Pubblico, fasc. 1/2019, p. 293 ss.
[19] G. Manzoni, Corruzione e anticorruzione nel sistema sanitario, in Arch. Pen., 2019, p. 3 ss.
[20] G. Salcuni, Abuso d’ufficio ed eccesso di potere: “fine di un amore tormentato”? in La riforma dell’abuso d’ufficio. Atti del convegno di Biella, 16 aprile 2021 (a cura di) G. Ruggiero, Ius Pisa University Press, 2021, p. 79.
[21] G. Manzoni, Corruzione e anticorruzione nel sistema sanitario, in Arch. Pen., 2019, p. 3 ss. Si possono vedere anche il report elaborato da Transparency International su Corruzione e sprechi in sanità, del novembre 2013, su www.tranparency.it e il Piano Nazionale Anticorruzione dell’ANAC.
[22] Vedremo meglio nel prossimo paragrafo come gli abusi contestati ai sanitari consistano di solito nel dirottamento dei pazienti verso cliniche o studi privati propri o di terzi, per prestazioni che ben potrebbero essere svolte presso strutture pubbliche.
[23] L’art. 432-14 del codice penale francese, rubricato «Favoritisme», recita: «Est puni de deux ans d'emprisonnement et d'une amende de 200 000 €, dont le montant peut être porté au double du produit tiré de l'infraction, le fait par une personne dépositaire de l'autorité publique ou chargée d'une mission de service public ou investie d'un mandat électif public ou exerçant les fonctions de représentant, administrateur ou agent de l'Etat, des collectivités territoriales, des établissements publics, des sociétés d'économie mixte d'intérêt national chargées d'une mission de service public et des sociétés d'économie mixte locales ou par toute personne agissant pour le compte de l'une de celles susmentionnées de procurer ou de tenter de procurer à autrui un avantage injustifié par un acte contraire aux dispositions législatives ou réglementaires ayant pour objet de garantir la liberté d'accès et l'égalité des candidats dans les marchés publics et les contrats de concession».
[24] R. Salomon, La rigueur du droit pénal de la probité publique, in Droit penal, 1° gennaio 2012, étude 2.
[25] E. Mattevi, L’abuso d’ufficio. Una questione aperta. Evoluzione e prospettive di una fattispecie discussa, Collana della facoltà di giurisprudenza, Trento, 2022, p. 352 propone di abrogare l’abuso d’ufficio contestualmente potenziando gli artt. 353 e 353-bis c.p. onde includere nel loro ambito di applicazione, da un lato, le condotte volte non a manipolare il procedimento per l’assegnazione di un appalto ma ad evitarlo, e, dall’altro, le condotte perpetrate non nel settore degli appalti ma in quello dei pubblici concorsi.
[26] Interessante anche, per esempio, Cass., Sez. VI, 18 febbraio 2015 (dep. 10 marzo 2015), n. 10140, Rv. 262802, imp. Bossi e al., in cui il vantaggio attribuito dal p.u., pur essendo di natura non patrimoniale (il capo del settore programmazione del territorio dava indicazioni alle imprese che consentivano loro di accelerare il procedimento) rappresenta il corrispettivo per l’assunzione della propria convivente.
[27] Per ritenere integrata la concussione non è sufficiente che il medico suggerisca al paziente di rivolgersi a una clinica privata: è necessario che l’induzione sia “colorata” dall’abuso. Cfr. A. Gullo, Concussione per induzione e rapporto medico-paziente, in Corr. merito, 2006, pp. 1186-1190.