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20 Dicembre 2024


Concorso pubblico truccato anticipando i temi delle prove: non potendo più ricorrere alla turbativa d’asta e all’abuso d’ufficio, il Tribunale di Milano condanna per rivelazione di segreti d’ufficio

Trib. Milano, 11.9.2024 (dep. 11.11.2024), G.u.p. Iannelli



*Contributo pubblicato nel fascicolo 12/2024. 

 

1. La sentenza del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Milano, che può leggersi in allegato, e che è stata segnalata nei giorni scorsi da Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, è di particolare interesse perché mette in luce i possibili effetti prodotti nella prassi dall’abolizione del delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), in particolare nell’ambito dei concorsi pubblici. L’eliminazione di tale fattispecie da parte della c.d. legge Nordio (l. n. 114/2024), insieme all’indirizzo restrittivo della Cassazione che limita la turbativa d’asta alle sole gare per l’acquisto di beni e servizi[1], hanno determinato, con riferimento alle procedure pubbliche per il reclutamento del personale, un vero e proprio vuoto di tutela, che l’interprete prova a colmare come può, se può, anche ricorrendo a soluzioni inedite e ingegnose. A seguito dell’abrogazione di una norma incriminatrice, come l’art. 323 c.p., è d’altra parte in qualche misura fisiologico che risultino applicabili norme prima inutilizzate, perché messe fuori gioco o comunque assorbite dal disvalore del reato abolito. È quel che mostra la sentenza annotata che, come si dirà, non potendo applicare né la turbativa d’asta, né l’abuso d’ufficio, ritiene configurabile il delitto di rivelazione di segreto d’ufficio ex art. 326 c.p.

 

2. La vicenda dalla quale origina la sentenza riguarda un concorso pubblico per il reclutamento di un tecnico di laboratorio presso un dipartimento universitario, nell’ambito del quale il presidente della commissione valutatrice, professore presso la stessa università, e l’unica candidata, poi risultata vincitrice, sono stati chiamati a rispondere del delitto di turbativa d’asta (art. 353 c.p.). In particolare, secondo la ricostruzione del pubblico ministero, il professore e la candidata si sarebbero, da un lato, accordati per calibrare il bando di concorso a favore di quest’ultima; dall’altro lato, avrebbero convenuto di anticipare all’imputata i temi sui quali si sarebbero di lì a poco svolte le prove concorsuali. La sentenza in esame – che è stata resa in esito a giudizio abbreviato – riguarda la posizione processuale della sola candidata al posto messo a bando. Il G.u.p. del Tribunale di Milano, come vedremo, dopo aver derubricato il fatto contestato nel delitto di rivelazione di segreto d’ufficio ha condannato l’imputata alla pena di quattro mesi di reclusione. Il professore coinvolto è stato invece giudicato separatamente, avendo optato per la definizione del procedimento tramite patteggiamento. Ironia della sorte, nel patteggiamento – avvenuto prima che la Cassazione inaugurasse il nuovo orientamento restrittivo – i fatti ascritti al professore sono stati qualificati come turbativa d’asta: reato dal quale questi sarebbe stato sicuramente assolto se avesse optato per il rito ordinario, alla luce del mutamento giurisprudenziale successivamente intervenuto. La condanna per il delitto di cui all’art. 353 c.p. rimane tuttavia incontrovertibile in ragione dell’impossibilità di invocare la revoca della sentenza, ex art. 673 c.p.p., nel caso di un mutamento giurisprudenziale successivo favorevole al reo[2].

 

3. Il materiale probatorio raccolto, in primis la trascrizione dei colloqui telefonici intercettati e le conversazioni tra le parti avvenute su WhatsApp e via mail, hanno restituito una versione dei fatti inequivoca e dalla quale emerge chiaramente: i) che il professore aveva influito sulla formazione del bando con riguardo ai titoli necessari a concorrere, adattandolo alla luce delle specifiche competenze della candidata: in particolare, si era individuato quale requisito un titolo di studio – la laurea in chimica analitica – non del tutto coerente con l’ambito entro il quale la persona reclutata sarebbe andata ad operare, ma che in compenso era posseduto dall’imputata; ii) che i due erano d’accordo sul fatto che l’imputata si sarebbe candidata nella procedura di concorso e sarebbe stata favorita; iii) che il professore e la candidata si erano accordati nel senso che il professore avrebbe fatto avere alla candidata le tracce delle prove scritte e orali, circostanza che si è poi effettivamente realizzata. Nell’ambito dell’interrogatorio condotto dal pubblico ministero, l’imputata ha sostanzialmente ammesso gli addebiti, confermando di aver partecipato alla turbativa della procedura, in particolare ricevendo le tracce oggetto delle prove d’esame.

 

4. Se la ricostruzione dei fatti è dunque priva di profili di criticità, non può dirsi altrettanto della qualificazione giuridica degli stessi. Il G.u.p. del Tribunale di Milano non ha infatti condiviso l’imputazione proposta dal pubblico ministero, riqualificando i fatti, originariamente ascritti all’imputata a titolo di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.), nel delitto di rivelazione di segreti d’ufficio di cui all’art. 326 c.p. Tale conclusione – che il giudice milanese definisce “obbligata” – è motivata richiamando l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, inaugurato dalla sent. n. 26225/2023[3] e poi confermato dalle sentt. n. 32319/2023[4] (relativa ad una procedura di concorso per il reclutamento di un docente universitario) e 38127/2023[5]. Tali decisioni, tutte della Sezione Sesta della Corte di cassazione, hanno affermato che le condotte turbative o impeditive realizzate nell’ambito delle procedure di concorso per l’accesso ai pubblici impieghi (o relative alla mobilità del personale tra diverse amministrazioni) non integrano il delitto di turbata libertà degli incanti, poiché tale fattispecie è posta a tutela del regolare svolgimento dei soli procedimenti finalizzati all’acquisizione di beni e servizi. Una estensione della figura di cui all’art. 353 c.p. alla tutela di altre procedure deve escludersi in ragione del necessario rispetto del principio di tassatività e del divieto di analogia in malam partem in materia penale, così come di recente riaffermati dalla sent. n. 98/2021 della Corte costituzionale. L’applicazione dell’art. 353 c.p. a procedure diverse da quelle relative all’acquisizione di beni e servizi da parte della p.a., secondo l’orientamento richiamato, eccede infatti in modo evidente l’ambito dei significati attribuibili alla nozione “gare nei pubblici incanti o nelle licitazioni private per conto delle pubbliche amministrazioni”, determinando così una inaccettabile estensione analogica dell’ambito di applicazione di tale figura di reato.

 

5. La sentenza in commento, conformemente a quanto già sostenuto dalla Cassazione[6], ha escluso inoltre che parte delle condotte qui considerate – in particolare quelle riguardanti l’alterazione dei contenuti del bando di gara – potessero essere sussunte nell’attigua fattispecie di turbata libertà di scelta del contraente, di cui all’art. 353-bis c.p., che punisce chi con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, turba il procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione.

Secondo il giudice milanese, l’art. 353-bis c.p. deve necessariamente avere lo stesso ambito d’applicazione dell’art. 353 c.p. Il delitto di turbata libertà di scelta del contrante è stato infatti introdotto dal legislatore in funzione anticipatoria della tutela già apprestata dall’art. 353 c.p., nella consapevolezza che una offesa ai beni giuridici coinvolti può intervenire, sia con condotte di turbamento successive all’emanazione del bando, sia con condotte precedenti che influiscono sul contenuto dello stesso. Il pubblico ministero ha sostenuto invece che l’interpretazione letterale dell’art. 353-bis c.p. – che si riferisce genericamente al contenuto del “bando o di altro atto equipollente” – ammette una lettura più estesa della norma e quindi la possibilità di riferire tale disposizione ad un novero di gare più ampio rispetto a quello individuato con riferimento all’art. 353 c.p. Quest’ultima tesi non è stata tuttavia condivisa dalla sentenza in commento, che ha aderito invece a quanto già affermato dalla Sezione Sesta della Cassazione[7]. Secondo il G.u.p. di Milano, la lettura proposta dal pubblico ministero, se accolta, darebbe luogo all’esito paradossale di una tutela penale piena – applicazione sia dell’art. 353, sia dell’art. 353-bis c.p. – con riferimento ad un numero ristretto di procedure; mentre una tutela penale attenuata – applicazione del solo art. 353-bis c.p. – per tutte le altre tipologie di gara. Una conclusione irrazionale che la sentenza in esame disattende, sostenendo al contrario la necessità del raccordo, quanto ad ambito di applicazione, tra gli artt. 353 e 353-bis c.p. Solo in questo modo, infatti, «l’anticipazione di tutela recata dalla prima disposizione può assumersi in modo logico rispetto alla scelta di politica criminale fatta dal legislatore con la seconda disposizione». Mentre, non ha alcun senso immaginare una tutela penale dei concorsi pubblici per il reclutamento del personale limitata alla sola fase di predisposizione del bando[8].

Il G.u.p. del Tribunale di Milano è ben consapevole che, argomentando in questo modo, l’esito è quello di privare integralmente della tutela penale specifica contro le turbative le procedure pubbliche di reclutamento del personale. In altre parole, le condotte di turbamento che intervengono nei concorsi per l’accesso ai pubblici impieghi non possono essere sussunte, né nel delitto di cui all’art. 353, né nel 353-bis c.p. Una conseguenza di non poco momento – e opinabile dal punto di vista politico-criminale – ma alla quale il giudice non può far altro che adeguarsi alla luce del citato orientamento della VI Sezione della Cassazione.

 

6. Nell’impossibilità di applicare gli artt. 353 e 353-bis c.p. e stante la già citata abolizione del delitto di abuso d’ufficio, il giudice milanese ha quindi riqualificato la condotta dalla candidata nel delitto di rivelazione di segreto d’ufficio (art. 326 c.p.), al quale questa ha preso parte nella qualità di concorrente extraneus. Secondo la sentenza, nonostante la diversa qualificazione delle condotte da parte della sentenza di patteggiamento pronunciata nei confronti del pubblico ufficiale autore del reato (l’intraneus), è incontestabile che il presidente della commissione esaminatrice, comunicando anticipatamente l’oggetto della prova d’esame ad uno dei concorrenti, abbia realizzato un fatto riconducibile all’art. 326 c.p., trattandosi – come richiede la norma – di rivelazione di una “notizia d’ufficio” che “deve rimanere segreta”[9]. Venendo poi alla posizione della candidata, il giudice di Milano ha ritenuto altrettanto pacifica la responsabilità di quest’ultima quale concorrente extranea nel reato citato per avere istigato il presidente della commissione alla rivelazione dei contenuti delle prove.

Va ricordato, che la rivelazione di segreto d’ufficio è una fattispecie plurisoggettiva c.d. “anomala”, atteso che oltre al pubblico agente è necessaria la presenza di un ulteriore soggetto al quale la notizia viene divulgata, senza tuttavia che questi sia punibile. Chi riceve la notizia può invece andare incontro a responsabilità, nel momento in cui – oltre appunto ad essere il destinatario della divulgazione – accede al fatto realizzato dall’intraneus con una condotta che vi apporta un contributo causale, secondo i principi generali in tema di concorso di persone nel reato. La sentenza in esame, alla luce del materiale probatorio raccolto, ha quindi ritenuto che la candidata avesse sollecitato il professore ad anticiparle il contenuto delle prove, partecipando dunque alla realizzazione del delitto nella forma del concorso morale.

Non ostano a questa conclusione – il g.u.p. lo precisa – ostacoli di ordine processuale. Ai fini della configurabilità della responsabilità dell’extraneus, è sufficiente infatti, secondo la giurisprudenza, che l’esecutore materiale del reato sia riconosciuto responsabile del reato proprio, quantomeno, sul piano oggettivo[10]. Da questo punto di vista, la responsabilità del professore è nel caso in esame incontestata, anche se il giudice del presente processo l’ha potuta affermare solo in via incidentale, tramite l’acquisizione, ex art. 238-bis c.p.p., della sentenza di patteggiamento, dalla quale si evince la responsabilità dell’intraneus per il medesimo fatto, seppur diversamente qualificato.

 

7. Un ultimo profilo considerato dalla decisione in esame è relativo all’eventuale ricorrenza degli estremi della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.), che tuttavia il giudice ha ritenuto di esludere. Questi ha argomentato l’impossibilità di applicare l’art. 131-bis c.p. alla luce i) del tipo di procedura coinvolta (una procedura di selezione per un posto finanziato da un ente di ricerca per la lotta contro il cancro); ii) della decisività della informazione segreta rilevata (i contenuti delle prove d’esame); iii) del momento in cui è intervenuto il turbamento illecito (fin dall’inizio della procedura); iv) della non esiguità del danno economico (gli emolumenti già percepiti dalla candidata erano superiori ai 3 mila euro).

Si sarebbe forse potuto obiettare che elemento utile ai fini del riconoscimento dell’art. 131-bis c.p. fosse la circostanza che l’imputata era l’unica partecipante al concorso. Questo aspetto pare, al contrario, essere stato valorizzato quale indice di un particolare disvalore del fatto, in quanto la condotta illecita, realizzatasi fin dal momento della predisposizione del bando, ha avuto anche l’effetto di determinare l’astensione di altri possibili interessati alla procedura di selezione.

Esclusa la ricorrenza dell’art. 131-bis c.p., l’imputata viene quindi condannata per concorso nel reato di rivelazione di segreto d’ufficio e viene irrogata dal giudice nei suoi confronti la pena, sospesa, di quattro mesi di reclusione.

***

8. Gli esiti del caso in esame sono per certi versi paradossali: l’imputata viene condannata per concorso in un reato proprio dell’intraneus (rivelazione del segreto d’ufficio), che di tale reato non è però stato nemmeno chiamato a rispondere; quest’ultimo ha infatti definito la sua posizione con un patteggiamento per turbativa d’asta, reato che oggi non è più ritenuto configurabile in ragione di un sopravvenuto mutamento giurisprudenziale. E – va ribadito – tale epilogo nel nostro ordinamento rimane fermo, in ragione dell’impossibilità di invocare la revoca della sentenza, ex art. 673 c.p.p., nel caso di un mutamento giurisprudenziale successivo favorevole al reo.

D’altra parte, al di là della specificità del caso concreto, la presente vicenda a nostro parere evidenzia la necessità, ineludibile dopo l’abolizione dell’abuso d’ufficio, di un intervento legislativo che ridisegni il quadro della tutela penale delle gare pubbliche. Si tratta di un problema, questo, acuito certo dall’abrogazione dell’art. 323 c.p., ma che già esisteva in precedenza, in ragione dell’incertezza interpretativa circa l’effettivo ambito di applicazione degli artt. 353 e 353-bis c.p. È indubbio che ora, venuta meno la “stampella” che prima forniva l’art. 323 c.p., i casi che non rientrano nei delitti di turbativa d’asta e turbata libertà di scelta del contraente siano destinati a rimanere impuniti, a meno che non vengano in soccorso, come nella vicenda in esame, altre fattispecie di reato, la cui configurabilità non è tuttavia sempre agevole.

Non sempre infatti la turbativa di una procedura si realizza a mezzo di un fatto che può essere sussunto nei diversi delitti di corruzione, concussione, rivelazione di segreto d’ufficio, omissione/rifiuto di atti d’ufficio, ovvero nei delitti di falso. A tale ultimo proposito, un’interessante vicenda giudiziaria, segnalata sempre da Luigi Ferrarella in questi giorni sulle pagine del Corriere della Sera, prospetta, in funzione supplente della turbativa d’asta e dell’abuso d’ufficio, la contestazione del falso nella autocertificazione di assenza di conflitto di interessi.

Considerato che sembra improbabile che la Sezione Sesta della Cassazione possa tornare sui suoi passi rispetto all’orientamento restrittivo in tema di concorsi pubblici e applicazione degli artt. 353 e 353-bis c.p., ci sembra ragionevole e urgente suggerire al legislatore di mettere mano alla formulazione delle fattispecie che nel codice penale si occupano di presidiare il bene giuridico del corretto svolgersi delle gare pubbliche (artt. 353, 353-bis e 354 c.p.). Si tratterebbe, ammodernando la disciplina e coordinandola con l’assetto determinato dall’abrogazione dell’art. 323 c.p., di esplicitare quali siano le gare da ricomprendere nell’ambito di queste disposizioni penali, così superando le differenze di trattamento che la giurisprudenza non può far altro che segnalare e che compete al legislatore superare.  

 

[1] La prima decisione della Cassazione in questo senso è Cass. pen., sez. VI, 10 maggio 2023, n. 26225, in CED 285528.

[2] Cfr. Corte cost. n. 230 del 2012.

[4] Cass. pen., sez. VI, 24 maggio 2023, n. 32319, in questa Rivista con nota di G.L. Gatta, La Cassazione sui concorsi universitari truccati: no alla turbativa d'asta, sì al (moribondo) abuso d'ufficio, fasc. 7-8/2023, p. 161 ss.

[5] Cass. pen., sez. VI, 24 maggio 2023, n. 38127, in CED 285274.

[6] Cass. pen., sez. VI, 11 aprile 2024, n. 21104, in CED 286380.

[7] Cfr., supra n. 5.

[8] Cfr. p. 10 della motivazione.

[9] Sulla configurabilità dell’art. 326 c.p., nel caso di divulgazione delle tracce d’esame si v. Cass. pen., sez. VI, 4 novembre 2021, n. 3157, in DeJure.

[10] Cfr. Cass. pen., sez. VI, 8 aprile 2014, n. 40303, in DeJure; Cass. pen., sez. II, 17 ottobre 2018, n. 219, in DeJure.