1. La riforma dell’abuso d’ufficio, ad opera del decreto-semplificazioni (art. 23 d.l. 16 luglio 2020, n. 76, conv. In l. 11 settembre 2020, n. 120), solleva questioni di diritto intertemporale complesse; ben più di quel che si potrebbe pensare limitandosi a considerare le univoche intenzioni del legislatore, preoccupato di far venir meno la ‘paura della firma’ e di limitare la responsabilità penale degli amministratori pubblici per facilitare la ripresa delle opere pubbliche e il rilancio dell’economia del paese. Se si resta in superficie, l’impressione è di un’estesa abolitio criminis, conseguente alla scelta di ritenere irrilevante l’abuso in violazione di norme di regolamento o di norme di legge che delineano ambiti di discrezionalità. Se però si considera più da vicino il fenomeno di diritto intertemporale determinato dalla riforma, la sensazione è che la portata dell’abolitio criminis, in qualche misura, sia più limitata, per quanto di indubbio rilievo.
2. Procediamo con ordine ricordando al lettore come la fattispecie dell’abuso d’ufficio, prima della riforma del 2020, contemplasse due diverse modalità della condotta, realizzate dal pubblico funzionario “nello svolgimento delle funzioni o del servizio” in modo da “intenzionalmente procura[re] a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero [da] arreca[re] ad altri un danno ingiusto”. L’abuso penalmente rilevante poteva infatti essere commesso, alternativamente,
a) in “violazione di norme di legge o di regolamento”;
b) “omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti”.
Le due diverse modalità dell’abuso erano e sono tutt’ora sanzionate con la stessa pena: la reclusione da uno a quattro anni.
La riforma del 2020, come si è detto in un precedente contributo pubblicato in questa Rivista, ha inciso solo sulla prima delle modalità della condotta: l’abuso penalmente rilevante non è più quello commesso “in violazione di norme di legge o di regolamento”, bensì quello realizzato “in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Come è evidente, la nuova formulazione della fattispecie ne restringe l’ambito di applicabilità, comportando in via di principio una abolitio criminis in relazione ai fatti di abuso d’ufficio commessi prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 76/2020 e non più riconducibili alla nuova versione dell’art. 323 c.p. Si è indubbiamente di fronte ad una abolizione del reato parziale, i cui contorni richiedono però di essere meglio definiti, essendo meno nitidi di quel che si potrebbe pensare.
3. Cominciamo anzitutto con lo stabilire un primo punto fermo. Come ha già riconosciuto la Corte di cassazione (Cass. Sez. F., 25 agosto 2020, n. 32174), l’abolitio criminis non interessa i fatti riconducibili alla modalità alternativa della condotta di abuso d’ufficio descritta dall’art. 323 c.p. e non modificata dalla riforma: l’omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti.
Aggiungiamo a questo punto un secondo punto fermo: la parziale abolitio criminis – come ha riconosciuto in un obiter dictum la citata sentenza della Cassazione – riguarda unicamente i fatti commessi “in violazione di norme di legge o di regolamento” e, in particolare, quelli soli realizzati attraverso:
a) la violazione di norme di regolamento;
b) la violazione di norme di legge dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse;
c) la violazione di regole di condotta, anche di fonte primaria, che lascino residuare margini di discrezionalità[1].
Secondo la disciplina generale, l’abolizione del reato, ai sensi dell’art. 2, co. 2 c.p. e dell’art. 673 c.p.p., comporta l’archiviazione dei procedimenti in fase di indagine, il proscioglimento nei processi in corso e la revoca delle sentenze di condanna passate in giudicato, con conseguente cessazione dell’esecuzione delle pene, principali ed accessorie, e degli effetti penali della condanna (si pensi ad esempio all’incandidabilità ai sensi del d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235).
4. Prima di poter affermare l’abolitio criminis è però necessario accertare l’effettiva perdita di rilevanza penale del fatto attraverso tre diverse verifiche, che a seconda della fase procedimentale devono peraltro tenere conto della possibilità o meno di modificare l’imputazione ovvero di riqualificare il fatto. È una necessità imposta dalla considerazione che il fatto diventa penalmente irrilevante solo se, a seguito della modifica normativa, non risulta riconducibile ad altra fattispecie, o sotto-fattispecie, divenuta applicabile dopo la modifica e per effetto di essa.
4.1. Una prima verifica (I) riguarda la riconducibilità del fatto concreto, oggetto del giudizio, alla nuova e più circoscritta ipotesi di abuso d’ufficio penalmente rilevante. È infatti possibile che la regola di condotta violata, prevista da una fonte secondaria – in ipotesi oggetto di contestazione da parte del pubblico ministero – sia riconducibile in via più o meno mediata anche a una fonte primaria, che ne costituisca la base legale e dalla quale siano ricavabili regole di condotta che possano dirsi espresse, specifiche e senza margini di discrezionalità. Una simile operazione, si noti, è possibile solo nei limiti in cui lo consenta un’interpretazione compatibile con il principio di legalità. Senonché la formulazione del nuovo art. 323 c.p. – lo osserviamo problematicamente – non brilla per precisione, potendo risultare in concreto e in qualche misura opinabile il carattere espresso, specifico e, soprattutto, “senza margini di discrezionalità” di una certa regola di condotta.
Una delle prime sentenze della Cassazione successive alla riforma (Cass. Sez. VI, 17 settembre 2020, n. 31873) ha confermato la rilevanza penale del fatto proprio seguendo la via qui considerata. Il caso è relativo a un abuso d’ufficio in materia edilizia-urbanistica. All’imputato, responsabile di un ufficio tecnico comunale, veniva contestato l’abuso d’ufficio per aver rilasciato il permesso di costruire una rimessa in zona agricola, contrariamente al Piano strutturale comunale e al Regolamento urbanistico comunale. Orbene, nell’esaminare d’ufficio la questione posta dalla sopravvenuta modifica normativa dell’art. 323 c.p., la Cassazione ha come si è detto escluso che la stessa abbia fatto venir meno la rilevanza penale del fatto. In tal direzione la S.C. ha seguito la strada della ‘violazione mediata di legge’[2], ribadendo la validità di un proprio orientamento, formatosi prima della riforma del 2020, secondo cui “il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici integra una ‘violazione di legge’, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 c.p.”[3]. La Cassazione ha individuato la ‘base legale’ dell’abuso penalmente rilevante nel t.u. edilizia dopo aver sottolineato come “il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi – ai sensi dell’art. 12, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 – ‘alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente’”. Seguendo la citata elaborazione giurisprudenziale, la S.C. ha quindi ribadito che “i piani urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti, come ritenuto da risalente e superato orientamento giurisprudenziale, che nel mutato quadro normativo escluderebbe la fattispecie di abuso in atti di ufficio, ma in quella degli atti amministrativi generali la cui violazione, in conformità dell'indirizzo ermeneutico consolidato, rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica (art. 12 e 13 del d.P.R. n. 380 del 2001)…, normativa a cui deve farsi riferimento, per ritenere concretata la ‘violazione di legge’, quale dato strutturale della fattispecie delittuosa ex art. 323 c.p. anche seguito della modifica normativa”. Dopo aver ancorato l’abuso d’ufficio alla violazione di una norma primaria, la S.C. si è poi correttamente posta il problema del carattere specifico e della natura non discrezionale delle regole ivi previste, ritenendo – a ragione o a torto – di poterlo risolvere in senso positivo: “la normativa in questione integra inoltre l’ulteriore requisito richiesto dalla modifica normativa, in quanto si tratta di norme specifiche e per le quali non residuano margini di discrezionalità: l’art. 12 cit. detta i requisiti di legittimità del permesso a costruire e il successivo art 13 cit. detta la disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare nel rilascio del permesso a costruire”.
Se la via della violazione mediata di legge è prospettabile, almeno in via di principio – nei limiti, lo ribadiamo, in cui lo consente un’interpretazione compatibile con il principio di legalità – sembra invece doversi escludere che un’analoga operazione possa essere realizzata invocando l’art. 97 Cost. È vero che la disposizione costituzionale continua ad essere inquadrabile nel concetto di “legge” ex art. 323 c.p., conformemente alla nota elaborazione giurisprudenziale precedente alla riforma del 2020, ma è anche vero che non sembra che da quella disposizione – che esprime principi generali (l’imparzialità e il buon andamento della p.a.) – possano ricavarsi espresse e specifiche regole di condotta a carattere vincolante[4]. Il principio di legalità, a fronte della nuova versione dell’art. 323 c.p., non sembra dunque lasciare più spazio alla tesi che, fino al recente passato, ha fondato la violazione di legge sull’art. 97 Cost. In un certo senso, è come se, rispetto a un reato colposo, il legislatore avesse voluto limitare la responsabilità alla colpa specifica, cioè alla violazione di regole cautelari codificate e, appunto, specifiche: non sarebbero più punibili i fatti commessi per colpa generica. Analogamente, l’abuso d’ufficio penalmente rilevante – ammesso che la citata interpretazione, prima della riforma, fosse compatibile con il principio di legalità – oggi non può consistere più nella violazione del generico dovere di imparzialità o di gestione efficiente della p.a., orientata al buon andamento: è necessaria la violazione di un’espressa, specifica regola di condotta di carattere non discrezionale, che per di più sia prevista da una fonte primaria.
4.2. Esclusa la riconducibilità del fatto alla rinnovata ipotesi dell’abuso per violazione di norma di legge, una seconda verifica (II) riguarda la possibilità o meno di inquadrare il fatto nella modalità alternativa della condotta, non attinta dalla modifica normativa: l’omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti.
Se il fatto, commesso prima della riforma, era già stato contestato quale ipotesi di omessa astensione, nulla quaestio: come ha già riconosciuto la Corte di Cassazione, non essendosi verificata, in parte de qua, una successione di leggi penali, non viene in rilievo la disciplina dell’art. 2, co. 2 c.p.[5].
Se invece il fatto era stato contestato quale abuso per violazione di norme di regolamento, ovvero di norme di legge prive però dei caratteri della specificità e dell’assenza di discrezionalità, occorre valutare, prima di poter affermare l’intervenuta abolitio criminis – nei limiti in cui la disciplina processuale lo consenta, garantendo il diritto di difesa (il riferimento è alla disciplina che regola il rapporto tra fatto nuovo e fatto diversamente qualificato) – se quello stesso fatto non integri l’omessa astensione che continua ad essere penalmente rilevante. Va infatti ricordato un fondamentale approdo della dottrina e della giurisprudenza in tema di successione di leggi penali nel tempo: l’abolitio criminis non si verifica quando una classe di fatti, in precedenza riconducibile a una certa (sotto)fattispecie legale espunta dall’ordinamento, conservi rilevanza penale perché riconducibile a una diversa (sotto)fattispecie legale già prevista dalla legge al tempo del fatto e divenuta applicabile dopo la modifica legislativa. Il fenomeno è noto, in giurisprudenza, con il nome di abrogatio sine abolitione[6] e si verifica sul presupposto di un riconosciuto rapporto di specialità tra le fattispecie: l’omessa astensione – in particolare nei casi prescritti da norme di legge o di regolamento – è ipotesi speciale rispetto alla generica violazione di norme di legge o di regolamento; l’estromissione della sottofattispecie generale (realizzata mediante violazione di norme di legge o di regolamento) lascia integra la rilevanza penale del fatto alla luce della sottofattispecie speciale (realizzata omettendo di astenersi in presenza di un obbligo previsto da norme di legge o di regolamento). Le potenzialità espansive della fattispecie di omessa astensione, a seguito della riforma del 2020, sono subito state colte dalla dottrina in sede di primo commento[7]. Quella fattispecie, soprattutto nella parte in cui si riferisce all’omessa astensione “negli altri casi prescritti”, è infatti in grado di abbracciare ipotesi di abuso d’ufficio in situazioni di conflitto di interesse delineate da fonti regolamentari e sublegislative in genere, nonché da regole, anche di fonte primaria, specifiche o non, che consentono più o meno ampi margini di discrezionalità. Il mancato coordinamento della riforma dell’abuso d’ufficio per violazione di norme di legge o di regolamento con l’ipotesi alternativa dell’abuso d’ufficio per conflitto di interessi ha comportato un esito che va oltre le intenzioni del legislatore, consentendo verosimilmente in non pochi casi di conservare rilevanza penale a condotte già inquadrabili nell’art. 323 c.p. sotto l’ormai vecchio cappello della “violazione di norme di legge o di regolamento”. A tal proposito Tullio Padovani, con la sua consueta efficacia, ha parlato di “una ‘curiosa’ configurazione ‘normativa’ che giustifica l’attributo denotativo di ‘ircocervo’. Se ricorre un interesse ‘proprio’ dell’agente pubblico o di un suo congiunto, od un altro caso di astensione, il pubblico ministero varca i cancelli della discrezionalità amministrativa e rovista dove è necessario rovistare…”[8].
Se la giurisprudenza dovesse valorizzare l’abuso d’ufficio per omessa astensione, facendolo assurgere al rango di sotto-fattispecie principale, non solo sarebbero assai ridotti gli spazi per affermare l’intervenuta abolitio criminis, ma andrebbe rivalutata la portata complessiva della riforma e la sua pretesa attitudine a tranquillizzare gli amministratori pubblici, allontanando lo spettro del sindacato penale sulla loro attività.
4.3. In questo stesso ordine di idee, d’altra parte, si inquadra la prospettiva aperta dalla terza verifica (III) che l’interprete è chiamato a compiere prima di affermare l’abolitio criminis. La logica dell’abrogatio sine abolitione impone di accertare se il fatto, contestato prima della riforma del 2020 quale abuso per “violazione di norme di legge o di regolamento”, sia riconducibile a una fattispecie diversa dall’abuso d’ufficio e già prevista dalla legge; impone cioè di verificare se quella riforma, mettendo fuori gioco l’art. 323 c.p., abbia reso applicabile (quale “legge posteriore” ai sensi dell’art. 2 c.p.), una diversa norma incriminatrice. In caso di risposta affermativa deve escludersi l’abolitio criminis e si pone un problema di individuazione della legge più favorevole, ai sensi dell’art. 2, co. 4 c.p. e pertanto facendo salvo il limite del giudicato.
Rispetto a questa verifica assume rilievo la clausola di sussidiarietà con la quale si apriva prima della riforma e continua ad aprirsi l’art. 323 c.p. (“salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”): una clausola destinata a regolare i rapporti con le altre figure di reato mettendo fuori gioco i reati meno gravi, assorbiti in quello di abuso d’ufficio, e viceversa escludendo l’applicabilità dell’abuso d’ufficio a favore di più gravi figure di reato.
Se il fatto, inquadrabile nell’abuso d’ufficio prima della riforma del 2020 e non più oggi, era in effetti riconducibile a un più grave reato – ad esempio, il peculato o la corruzione, funzionale o propria – in realtà l’art. 323 c.p. era già inapplicabile prima della riforma, che non ha determinato una successione tra leggi penali entrambe applicabili allo stesso fatto. Se il fatto è stato qualificato come abuso d’ufficio, anziché come peculato o corruzione, si tratta di una qualifica scorretta, da rivedere nei limiti in cui sia possibile secondo le regole del processo (ad esempio, in sede di riforma della sentenza nel giudizio d’impugnazione).
Quanto al peculato, va segnalato come nella rivalutazione della qualificazione giuridica del fatto, originariamente contestato come abuso d’ufficio, potrebbe assumere rilievo quanto prospettato da autorevole dottrina: la possibilità di un ‘ritorno’ del peculato per distrazione, messo in naftalina dalla precedente riforma dell’abuso d’ufficio realizzata nel 1997 e che potrebbe essere ritenuto configurabile – più propriamente, oggi, come peculato per appropriazione (art. 314 c.p.) – allorché venga in rilievo “il maneggio discrezionale di denaro o la destinazione pure discrezionale di risorse pubbliche a favore di terzi”[9]. La riforma del 2020 potrebbe in altri termini determinare un mutamento dell’interpretazione giurisprudenziale relativa ai rapporti tra abuso d’ufficio e peculato; un reato, quest’ultimo, che potrebbe vedere ampliata la propria sfera di applicazione, ricomprendendo fatti prima inquadrati nell’abuso d’ufficio[10].
Un fenomeno di successione di leggi penali può realizzarsi invece, per effetto della riforma del 2020, allorché a venire in rilievo sia un meno grave reato, che non resti più assorbito in quello di abuso d’ufficio. È ad esempio il caso, rilevante in ipotesi di abuso mediante omissione, dell’omissione di atti d’ufficio, ex art. 328 c.p. In una decisione del 2010, ad esempio, la Cassazione[11] ha ritenuto assorbito nell’abuso d’ufficio tale ultimo delitto, che ha ritenuto sussistente a carico del sindaco e di alcuni funzionari comunali che avevano deliberatamente omesso di dare esecuzione all'ordinanza di demolizione di un immobile al fine di procurare un indebito vantaggio ai proprietari. Orbene, rispetto a un simile caso, qualora non sia possibile mantenere ferma la configurabilità dell’abuso d’ufficio, attraverso uno dei percorsi ermeneutici sopra indicati, non potrà comunque a mio avviso affermarsi l’abolitio criminis, essendo il fatto riconducibile all’art. 328 c.p. che, venuta meno l’applicabilità dell’art. 323 c.p., diventa legge successiva applicabile al fatto; una legge più favorevole che, rispetto ai fatti ancora sub iudice, dovrà trovare applicazione anche e soprattutto agli effetti sanzionatori.
[1] In dottrina cfr. M. Gambardella, Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell'abuso d'ufficio, in questa Rivista, 29 luglio 2020, p. 142 s.; A. Nisco, La riforma dell’abuso d’ufficio: un dilemma legislativo insoluto a non insolubile, in questa Rivista, 20 novembre 2020, p. 7.
[2] In dottrina si è espresso criticamente nei confronti dell’“espediente della violazione mediata di legge mediante infrazione di una regola contenuta in fonti di rango sublegislativo (sia pure emanata in base alla legge)”, A. Nisco, La riforma dell’abuso d’ufficio, cit., p. 7, secondo cui “non si tratterebbe più di una regola ‘espressamente’ prevista dalla legge, ma appunto desunta dalla fonte subordinata”.
[3] Cfr. Cass. Sez. VI, 25 gennaio 2007, n. 11620, Pellegrino; Cass. Sez. III, 19 giugno 2012, n. 39462, Rullo.
[4] Così anche A. Nisco, La riforma dell’abuso d’ufficio, cit., p. 8.
[5] Cfr. Cass. Sez. F., 25 agosto 2020, n. 32174, Deidda, cit.
[6] Cfr., per tutti, in dottrina, G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, IX ed., Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2020, p. 137; nella giurisprudenza, Cass. Sez. Un., 26 febbraio 2009, n. 24468, Rizzoli, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, p. 900 s., con nota di G.L. Gatta, Abolizione dell’amministrazione controllata e abolitio criminis della bancarotta impropria ex art. 236, comma 2, n. 1 legge fallimentare.
[7] Cfr. T. Padovani, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in Giurisprudenza penale web, 28 luglio 2020, p. 10 s.; M. Gambardella, Simul stabunt vel simul cadent, cit., p. 150 s.; A. Nisco, La riforma dell’abuso d’ufficio, cit., p. 9; V. Valentini, Burocrazia difensiva e restyling dell’abuso d’ufficio, in Discrimen, 14 settembre 2020, p. 12.
[8] T. Padovani, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, cit., p. 10.
[9] T. Padovani, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, cit., p. 11 s. V. anche M. Gambardella, Simul stabunt vel simul cadent, cit., p. 152 s.; A. Nisco, La riforma dell’abuso d’ufficio, cit., p. 10
[10] Cfr., da ultimo, Cass. Sez. VI, 23 settembre 2020, n. 27910, Perriccone: “L'utilizzo di denaro pubblico per finalità diverse da quelle previste integra il reato di abuso d'ufficio qualora l'atto di destinazione avvenga in violazione delle regole contabili, sebbene sia funzionale alla realizzazione, oltre che di indebiti interessi privati, anche di interessi pubblici obiettivamente esistenti e per i quali sia ammissibile un ordinativo di pagamento o l'adozione di un impegno di spesa da parte dell'ente, mentre integra il più grave reato di peculato nel caso in cui l'atto di destinazione sia compiuto in difetto di qualunque motivazione o documentazione, ovvero in presenza di una motivazione di mera copertura formale, per finalità esclusivamente private ed estranee a quelle istituzionali”.
[11] Cass. Sez. VI, 22 gennaio 2010, n. 10009, Lombardi (“Il delitto di abuso d'atti d'ufficio può essere integrato anche attraverso una condotta meramente omissiva, rimanendo in tal caso assorbito il concorrente reato di omissione d'atti d'ufficio in forza della clausola di consunzione contenuta nell'art. 323, comma primo, c.p.”).