1. Con diverse ordinanze pubblicate su questa Rivista (tra le altre, 21 ottobre 2024, Tribunale di Busto Arsizio; 3 ottobre 2024, Tribunale di Firenze; 30 settembre 2024, Tribunale di Locri; 24 settembre 2024, Tribunale di Firenze. Il 7 ottobre 2024, Tribunale di Reggio Emilia ha invece rigettato una analoga richiesta della Procura) alcuni giudici di merito hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, primo comma, lett. b), della legge 9 agosto 2024, n. 114 (“Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare”) entrata in vigore il 25 agosto 2024.
La disposizione contestata prevede che «al codice penale sono apportate le seguenti modificazioni: (omissis) b) l’articolo 323 è abrogato». Tale articolo, rubricato “abuso d’ufficio” prevedeva, come noto, che «salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità»[1]
Le ordinanze di rimessione invocano, tra le varie norme della Costituzione che la disposizione contestata violerebbe, gli art. 11 e 117 primo comma, curiosamente entrambi – mentre il primo, come noto, poco ha a che vedere con il diritto internazionale pattizio, dal momento che costituisce lo strumento di aggancio costituzionale del diritto dell’Unione europea – con riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003 (nota anche come “Convenzione di Mérida”).
L’Italia ha firmato il 9 dicembre 2003, ratificato e, soprattutto, per quanto ci interessa, eseguito in foro interno tale Convenzione con la legge 3 agosto 2003, n. 116.
È il caso di evidenziare da subito come quest’ultima legge costituisca sia lo strumento mediante il quale si è realizzato il procedimento “speciale o mediante rinvio” di adattamento alla Convenzione (l’art. 2, infatti, prevede il “classico” ordine di esecuzione), sia lo strumento di adattamento secondario ─ volto cioè alla creazione delle norme e delle procedure necessarie per l’applicazione interna di (norme di) trattati non self-executing – alla medesima.
Le altre disposizioni della legge, infatti, contengono le norme allora ritenute necessarie dal legislatore italiano ad adeguare l’ordinamento interno agli obblighi previsti dalla Convenzione.
È il caso di riassumerle brevemente: l’art. 3, in osservanza dell’art. 16 della Convenzione, novella il secondo comma, numero 2), dell’art. 322-bis c.p. relativo al delitto di peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale o degli organi e funzionari di UE e Stati esteri; l’art. 4 – in esecuzione dell’art. 26 della Convenzione – inserisce un nuovo articolo (il 25-decies) nel decreto legislativo 231/2001, in tema di responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche; l’art. 5 – al fine di adattare il nostro ordinamento alle norme del Titolo V della Convenzione, relativo alla restituzione dei beni – inserisce due ulteriori articoli nel Libro XI del c.p.p. (artt. 740-bis e 740-ter); l’art. 6 individua nel Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione (poi Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche) l’Autorità nazionale anticorruzione di cui all’articolo 6 della Convenzione; l’art. 7, infine, individua nel Ministro della giustizia l’autorità richiesta dall’art. 46, par. 13 della Convenzione per ricevere le richieste di assistenza giudiziaria ed eseguirle o trasmetterle.
In buona sostanza il legislatore italiano ha adottato, con questa legge, le norme che erano necessarie ad adeguare l’ordinamento italiano, come allora vigente, alla Convenzione; tali norme sono state individuate sulla base dello stato del medesimo ordinamento al momento dell’esecuzione, quando esso contemplava il reato di abuso d’ufficio. Si tratta, come vedremo più avanti, di un elemento della prassi da tenere in debito conto.
2. Quanto alle disposizioni della Convenzione che l’abrogazione del reato di abuso di ufficio avrebbe violato, e che quindi opererebbero come norme interposte nel giudizio di costituzionalità, i giudici remittenti le individuano negli art. 7 par. 4, 19 e 65 par. 1.
Vediamone il contenuto.
L’art. 7 (“Public sector”), al par. 4, prevede che “each State Party shall, in accordance with the fundamental principles of its domestic law, endeavour to adopt, maintain and strengthen systems that
promote transparency and prevent conflicts of interest”, l’art. 19 (“Abuse of functions”) che “each State Party shall consider adopting such legislative and other measures as may be necessary to establish as a criminal offence, when committed intentionally, the abuse of functions or position, that is, the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the discharge of his or her functions, for the purpose of obtaining an undue advantage for himself or herself or for another person or entity” e l’art. 65 (“Implementation of the Convention”), par. 1 che “each State Party shall take the necessary measures, including legislative and administrative measures, in accordance with fundamental principles of its domestic law, to ensure the implementation of its obligations under this Convention” (tutti i corsivi sono aggiunti).
È opinione dei giudici che hanno sollevato le questioni che da tali norme discenda un obbligo di criminalizzazione – o quanto meno di non decriminalizzazione, una sorta di clausola di stand-still – violato dall’abrogazione del reato di abuso di ufficio.
In questo breve scritto cercheremo di fornire alcuni elementi per provare a capire se, in prospettiva internazionalistica, sia effettivamente così, con l’avvertenza che le dimensioni del contributo ci impediscono di ricostruire esplicitamente e dettagliatamente lo stato della dottrina e della prassi, che daremo in massima parte per presupposti salvo alcuni brevi rimandi, e che il suo scopo, ben lungi dal voler essere esaustivo dei numerosi profili che le questioni affrontate sollevano, è solo quello di portare nel dibattito alcuni elementi di rilevanza internazionalistica, esaminati alla luce del relativo metodo, con particolare attenzione al rapporto tra obblighi internazionali e strumenti di esecuzione/adattamento secondario degli ordinamenti interni.
3. Cerchiamo di capire, in primo luogo, se l’ordinamento internazionale contempli, in qualche modo, rispetto ai trattati internazionali, una clausola “generale” di stand-still, cioè se esso contenga una qualche norma che impone agli Stati, una volta ratificato un trattato internazionale, di non modificare, successivamente e “in peggio” rispetto agli obblighi internazionali assunti, lo stato dell’ordinamento interno.
La prassi non ci pare consenta di concludere per l’esistenza di un siffatto obbligo ai sensi del diritto internazionale generale, sia per la sua scarsità sia – e soprattutto – perché quelle poche volte in cui l’obbligo in questione è stato invocato, ciò è stato fatto sulla scorta di una norma pattizia.
Per altro verso, anche a volerne ammettere l’esistenza, sarebbe poco chiaro se una norma siffatta faccia riferimento a tutti i trattati internazionali in vigore per un dato Stato, cioè a quelli anche solo ratificati, o esclusivamente, e in maniera più limitata, a quelli eseguiti in foro interno. In quest’ultimo caso, peraltro, bisognerebbe pure capire se l’obbligo di stand-still si produca con riguardo ai trattati fatti oggetto anche solo di esecuzione primaria o esclusivamente con riguardo a quelli fatti oggetto di adattamento secondario cioè, com’è il caso della convenzione di Mèrida, che hanno visto esplicitamente l’adozione di norme interne volte a colmare le lacune derivanti dalla loro natura non self-executing.
Ad ogni modo, dall’inesistenza di una siffatta norma di diritto internazionale generale discende quindi che un obbligo di stand-still rispetto a un trattato può essere invocato solo in presenza della sua previsione nel testo del trattato stesso, esplicita o quantomeno implicita.
Vediamo se una norma di questo tipo è contenuta nella Convenzione di Mèrida, partendo dall’ultima delle norme convenzionali invocate dai giudici remittenti e da noi citate nel paragrafo precedente (la dottrina si chiede «se (..) esista un vincolo convenzionale che impedisca al nostro Paese di fare un passo indietro. La questione meriterebbe di essere approfondita, per quanto la strada sembri senz’altro in salita»[2]).
Ebbene, l’art. 65 della Convenzione rappresenta, a nostro giudizio, una classica “clausola di esecuzione o di implementazione”, volta ad aggiungere per gli Stati membri di un trattato, all’obbligo di rispettarlo sul piano internazionale che è conseguenza della sua ratifica e (per gli accordi multilaterali come la Convenzione di Merida) entrata in vigore, anche quello, parimenti internazionale, di conformarvi il proprio ordinamento interno.
Una maggiore o piena efficacia di un trattato internazionale, infatti, può essere garantita quando le sue norme (qualora il loro contenuto lo consenta o lo preveda) non si limitano ad avere una mera rilevanza internazionalistica, ma producono anche effetti all’interno degli ordinamenti giuridici nazionali.
Una clausola siffatta, quindi, sul piano internazionalistico, svolge la funzione di creare un obbligo internazionale “supplementare”, quello di assicurare la conformità delle leggi nazionali, nonché delle regolamentazioni e delle procedure amministrative interne, con i vincoli assunti nell’ordinamento internazionale, al fine di radicare la responsabilità internazionale degli Stati membri che non abbiano provveduto ad eseguire o ad eseguire correttamente in foro interno quel dato trattato.
Essa, pur non contemplando alcun obbligo di criminalizzazione né di stand-still e pur non essendo in grado di influenzare il contenuto materiale di altre disposizioni della Convenzione, come vedremo, potrebbe però giocare un ruolo fondamentale nella questione di legittimità costituzionale sollevata.
Obblighi di penalizzazione o divieti di depenalizzazione non ci pare possano discendere neppure dalla seconda delle disposizioni convenzionali invocate, e cioè dall’art. 19 della Convenzione, il quale si limita ad imporre agli Stati l’obbligo di “consider adopting such legislative and other measures as may be necessary to establish as a criminal offence…”.
Una norma così formulata, interpretata già solo alla luce della “regola generale di interpretazione” contenuta nell’art. 31, par. 1 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati («Un trattato deve essere interpretato in buona fede seguendo il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e del suo fine») ci pare imporre agli Stati un obbligo di mezzo, e non già di risultato, e cioè quello di valutare in buona fede la situazione, con riguardo all’adozione di determinate misure legislative specifiche, e non già di adottarle in concreto[3]. Essa, quindi, non può esser considerata la fonte dalla quale discende alcun obbligo di criminalizzazione o divieto di depenalizzazione.
Un discorso parzialmente diverso, a nostro parere, potrebbe però, forse, esser sviluppato con riguardo all’art. 7, par. 4, il quale prevede che «each State Party shall, in accordance with the fundamental principles of its domestic law, endeavour to adopt, maintain and strengthen systems that promote transparency and prevent conflicts of interest», alla luce del quale, in buona sostanza, l’Italia si è impegnata ad adoperarsi per adottare, rafforzare e, per quanto ci interessa, mantenere sistemi che promuovano la trasparenza e prevengano i conflitti di interessi, come effettivamente il reato abrogato faceva.
Ci pare che nell’interpretazione del par. 4 dell’art. 7 non si possa ignorare, infatti, il differente tenore che hanno i precedenti parr. 2 e 3 del medesimo articolo che, con riguardo ad elezioni e relativi finanziamenti, in maniera meno penetrante, si limitano a richiedere agli Stati di “consider adopting appropriate legislative and administrative measures, consistent with the objectives of this Convention…”, mentre il par. 4, come dicevamo, usa un verbo differente e di altro significato quale “to endeavour… to maintain”.
Si tratta, quindi, di una norma che, se applicata in buona fede, forse, potrebbe implicare se non un obbligo di criminalizzazione, uno di stand-still[4], o quanto meno una sorta di standard de minimis di criminalizzazione al fine di tutelare una certa stabilità del regime di lotta alla corruzione[5], con il quale l’abrogazione totale di un reato come quello di abuso d’ufficio potrebbe essere incompatibile, e questo anche in considerazione delle attività svolte in sede di adattamento secondario della Convenzione da parte del legislatore italiano.
Come abbiamo visto, l’art. 65 della Convenzione impone sul piano internazionale agli Stati membri di rendere i propri ordinamenti interni compatibili con gli obblighi derivanti dalla sua ratifica. La modalità concreta di attuazione di questo obbligo di adattamento dipende, ovviamente, dallo stato degli ordinamenti interni e quindi varia da Stato a Stato e anche, nel tempo, rispetto al singolo ordinamento considerato.
Quando l’Italia ha proceduto all’adattamento secondario di cui abbiamo detto, attraverso la legge 3 agosto 2003, n. 116, il nostro ordinamento era comprensivo del reato di abuso d’ufficio, la cui abrogazione è ragionevole presumere abbassi il livello di compatibilità del diritto italiano con gli obiettivi che la Convenzione si pone. Non stiamo sostenendo che ogni modifica in peggio dell’ordinamento interno costituisca una violazione della Convenzione ma che, probabilmente, una norma come quella dell’abuso d’ufficio, di portata piuttosto generale, era particolarmente adatta a rappresentare comunque una norma di “chiusura” (“salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”…) dell’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dalla Convenzione, in quanto volta in linea generale «to promote transparency and prevent conflicts of interest», per usare le parole dell’art. 7, par. 4 della Convenzione.
Pertanto la sua abrogazione potrebbe comportare una violazione sia dell’art. 65 sia dell’art. 7, par. 4 della Convenzione, rilevanti ai sensi del vincolo di rispetto degli obblighi internazionali che l’art. 117 Cost. impone al legislatore.
È il caso di ricordare, poi, che anche con riguardo all’esecuzione di obblighi internazionali che prevedono la criminalizzazione di determinate fattispecie, l’art. 25 Cost. gioca un ruolo che non può essere sottovalutato, e che potrebbe svolgere una funzione di deterrenza rispetto a una decisione di accoglimento della Corte costituzionale, il cui intervento, sul punto, potrebbe invadere una sfera di competenza esclusiva, in quanto discrezionale, del legislatore.
È d’altro canto parimenti vero che una spinta verso una declaratoria di illegittimità costituzionale potrebbe invece esser conseguenza di quell’ atteggiamento di “deferenza” che la Corte ha spesso mostrato nei confronti degli obblighi internazionali di criminalizzazione, superando in questi casi finanche il noto limite del sindacato in malam partem[6].
[1] (sull’abrogazione v. A. Manna, Sull’abolizione dell'abuso d'ufficio e gli ulteriori interventi in tema di delitti contro la P.A.: note critiche, in questa Rivista, 6 agosto 2024.
[2] G.L. Gatta, Abuso d’ufficio e traffico di influenze dopo la l. n. 114/2024: il quadro dei problemi di diritto intertemporale e le possibili questioni di legittimità costituzionale, in questa Rivista, fasc. 7-8/2024, p. 187 ss.
[3] Parla di obbligo di tipo procedurale L. Acconciamessa, Sull’inesistenza di un obbligo internazionale di stand-still o «di mantenere le cose così come sono» e la conseguente legalità, ai sensi del diritto internazionale, della decriminalizzazione dell’abuso d’ufficio, in corso di pubblicazione in Diritti umani e diritto internazionale, 2024.
[4] ma contra v. L. Acconciamessa, op. cit.
[5] (in questo senso v. K. Michael, R.A. Cornelia, The United Nations Convention against corruption and its criminal law provisions, in P. Hauck, S. Peterke (Eds), International Law and Transnational Organised Crime, Oxford. 2016, p. 219 ss.
[6] Ci è impossibile qui addentrarci nell’esame di questi aspetti: sulla “deferenza” della Corte costituzionale ad obblighi internazionali siffatti v. B. Bonafè, Constitutional judicial review and international obligations of criminalization, in International Criminal Law Review, 2021, p. 660 ss, e per un’analisi della giurisprudenza v. D. Amoroso, The Duties of Criminalization under International Law in the Practice of Italian Judges: An Overview, ivi, p. 641 ss.