Corte d’Appello di Milano, Sez. IV Penale, 19 dicembre 2024, Pres. Rizzardi, est. Centonze
*Contributo destinato alla pubblicazione nel fascicolo 3/2025.
1. Con la sentenza che si commenta, la Corte d’Appello di Milano si è pronunciata sul reato di propaganda di idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale o etnico, aggravato in virtù del suo contenuto negazionista, ascritto a due imputati in concorso tra loro. Nel contesto di un monitoraggio realizzato su alcune piattaforme social, in particolare, i due venivano individuati per una intensa attività di propaganda di matrice razzista e discriminatoria, qualificata ai sensi dell’art. 604-bis c.p., ed aggravata ex comma 3 in ragione del tenore negazionista di alcuni dei contenuti diffusi.
La condotta appariva integrata da numerose condivisioni social di contenuti e post, nonché dall’affissione di volantini contenenti messaggi e simboli razzisti e discriminatori, variamente caratterizzati da contenuti antisemiti e negazionisti, inneggianti alla superiorità della razza bianca e alla divulgazione delle idee del nazionalsocialismo: ad essi si aggiungevano, inoltre, ulteriori materiali rivenuti nella disponibilità dei due, a seguito di una perquisizione delle rispettive abitazioni. Sulla maggior parte di tali file e volantini, si trovavano riferimenti espliciti al Movimento Nazionalsocialista e Socialista dei Lavoratori NSAB – MLSN, di cui entrambi gli imputati erano membri attivi.
Condannati in primo grado dal GIP presso il Tribunale di Milano, i due presentavano appello avverso la pronuncia del giudice di prime cure, censurandone la bontà in relazione a plurimi aspetti e lamentando, in particolare, un’erronea valutazione in merito alla rilevanza penale delle condotte contestate, ampiamente desunta dall’appartenenza al summenzionato Movimento e comunque da riferirsi all’esercizio della libertà costituzionalmente garantita di manifestazione del pensiero.
2. Con la pronuncia in commento, la Corte d’Appello milanese rigetta gran parte delle argomentazioni difensive, mettendo anzitutto l’accento sulla selezione stringente del materiale operata dai giudici, che avrebbero correttamente circoscritto l’imputazione ai soli messaggi suscettibili di integrare il reato di cui all’art. 604-bis c.p. in virtù della loro natura discriminatoria e negazionista.
È anzitutto attorno alla struttura dell’art. 604-bis c.p. – e, in particolare, sulla condotta di propaganda, che dal 2006[1] ha sostituito la precedente nozione di “diffusione” – che si articola l’apparato motivazionale della sentenza: dopo una ricostruzione della nozione di discriminazione, operata a partire dai riferimenti normativi esistenti a sistema[2], la Corte d’Appello si sofferma a considerare come, a differenza della previgente e più vaga dizione, la propaganda presupponga «una costante propagazione di idee finalizzata ad uno scopo, ovvero un’azione che persegue l’obiettivo di influenzare e persuadere gli altri in modo da orientarne la volontà»[3].
Quanto, poi, all’aggravante del terzo comma, la Corte precisa che il riferimento al negazionismo «rimanda ad un atteggiamento di minimizzazione, o di scetticismo, o addirittura di rifiuto nei riguardi di verità storiche aventi ad oggetto casi eclatanti di discriminazione, spesso anche con l’impiego della violenza, in danno di determinate comunità etniche, religiose», evidenziando come la stessa Corte EDU, nella sua giurisprudenza relativa all’art. 10 della Convenzione, abbia escluso dalla protezione della norma le condotte relative a «fatti storici chiaramente stabiliti», quali l’Olocausto[4], in quanto suscettibili di mettere in discussione «i valori che fondano la lotta contro il razzismo e l’antisemitismo».
Sul fronte dell’oggettività di tutela delle condotte considerate, la Corte pare aderire alla consolidata lettura che, anche in virtù dall’intitolazione codicistica di “delitti contro l’eguaglianza”, individua nella pari dignità umana[5] – e non anche, se non indirettamente, nell’ordine pubblico[6] – il bene giuridico tutelato da queste norme.
Quanto, infine, al pericolo concreto richiesto dalla fattispecie, posto che esso «presuppone la diffusività delle idee presso un numero indeterminato di persone e la concreta idoneità della condotta a trovare consensi nel pubblico», la Corte argomenta circa la sussistenza di tale requisito sulla scorta dall’ampia organizzazione di mezzi e strumenti, tanto fisici quanto virtuali, di cui i due disponevano, anche in virtù dell’appartenenza al Movimento di cui sopra.
Né varrebbe, ad escludere la rilevanza penale delle condotte considerate, il richiamo alla libertà di parola ex art. 21 Cost., vertendosi «in materia di bilanciamento di interessi di rango costituzionale che hanno già trovato assetto definitivo nella incriminazione prevista dall’art. 604-bis c.p.»: un assunto che sarebbe dimostrato dai precedenti con cui la Cassazione ha escluso con convinzione la fondatezza di una questione di legittimità costituzionale della disposizione in parola per contrasto con l’art. 21 Cost.[7], e dalla stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di art. 10 CEDU[8].
I giudici milanesi confermano dunque la decisione di prime cure, riformandola nella sola parte in cui riconosceva l’aggravante negazionista ad entrambi gli imputati, senza considerare che uno di essi, pur condividendo le idee di cui si trattava, non aveva però mai effettivamente diffuso i relativi contenuti.
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3. La pronuncia, ampiamente argomentata in fatto ed in diritto, rappresenta un’occasione preziosa di approfondimento delle principali problematiche che le figure di hate speech ancora sollevano[9], molte delle quali appaiono esemplificate perfettamente nei fatti di causa e nella decisione assunta dal giudice milanese.
3.1. Un primo profilo critico, che emerge in diversi punti della motivazione e nella stessa formulazione dell’imputazione, attiene ai plurimi richiami all’esistenza di un forte collegamento tra gli imputati e il Movimento Nazionalsocialista e Socialista dei Lavoratori NSAB – MLSN, la cui incontestata ideologia discriminatoria e razzista viene ritenuta rilevante sul fronte della valutazione delle condotte contestate ai due individualmente.
Tale argomentazione dimostra, in primo luogo, una confusione concettuale di fondo sulla collocazione del discrimen tra condotte di propaganda d’idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale, realizzate in concorso tra più soggetti, e la vera e propria partecipazione ad un’associazione avente fini discriminatori e razzisti. La stessa Corte, nel passaggio motivazionale relativo al pericolo concreto di diffusione dei contenuti, considera in effetti che il carattere organizzato della diffusione appare «tale non solo da rappresentare un serio e concreto pericolo di coagulare il consenso intorno alle idee propugnate, ma da lambire – per il contesto in cui è maturata – anche la fattispecie associativa di cui al secondo comma».
Nondimeno, la mancata contestazione di tale fattispecie viene motivata dalla Corte in forza dell’assenza, nello Statuto e nel Programma Nazionale del Movimento, di qualsivoglia riferimento a scopi discriminatori; tale circostanza, invocata dalle difese per sancire l’irrilevanza penale delle condotte contestate agli imputati, viene invece ritenuta dalla Corte al più idonea a riqualificare i fatti in un paradigma diverso da quello associativo, posto che «altrimenti si ricadrebbe senza dubbio nell’ipotesi di cui all’art. 604-bis co 2 c.p.».
Sembra tuttavia evidente che la differenza tra fattispecie associativa e altre ipotesi delittuose di cui alla norma in questione non possa giocarsi solo sul fronte della esistenza di una organizzazione che persegua dichiaratamente fini razzisti o discriminatori, dovendosi viceversa individuare il quid tipico della forma associativa, punita con una pena più elevata, proprio in quell’«ampia organizzazione di mezzi e strumenti» funzionale al perseguimento di un «progetto unitario di massima propagazione» di idee discriminatorie, che la Corte richiama espressamente in motivazione.
D’altro canto, pur escludendo la ricorrenza della fattispecie associativa tout court, la Corte d’Appello enfatizza in più punti proprio l’appartenenza al Movimento quale indice qualificato per l’attribuzione di rilevanza penale dei materiali nella disponibilità dei due imputati, tra l’altro evidenziando l’apposizione della sigla NSAB, del sito internet e dell’indirizzo e-mail del movimento su molti tra i file e stampe; la natura propagandistica dei materiali diffusi viene motivata sul presupposto che «in ognuno dei messaggi pubblicati, attraverso social network di ampia diffusione […] vi è l’invito ad aderire al Movimento e alla sua ideologia […] sicché chiara è l’attitudine al proselitismo»; e proprio l’apposizione della sigla del Movimento sul materiale di volantinaggio viene intesa quale «segno evidente di rivendicazione della predetta appartenenza e quindi chiaro rimando all’idea fondante del gruppo cui i propagatori invitano ad aderire».
Da una parte, dunque, la ricorrenza della fattispecie associativa viene negata, dall’altra è però proprio l’invito ad aderire a tale organizzazione e condividerne le idee a determinare la rilevanza penale dei contenuti propagandati.
3.2. Simili affermazioni, del resto, assumono rilievo critico anche in una prospettiva diversa, non meno problematica: dalle parole della Corte si trae, infatti, l’impressione di un’accusa che muove attorno ad una prospettiva fortemente sbilanciata verso la persona – e la personalità – degli imputati, in evidente tensione con il canone di materialità che invece dovrebbe orientare il diritto penale.
Paradigmatico il passaggio motivazionale in cui si afferma di ritenere «non solo che tutte le pubblicazioni siano permeate da un oggettivo sentire discriminatorio […] ma che ciò emerga in maniera evidente dal richiamo ai principi ispiratori del Movimento Nazionalsocialista e Socialista dei Lavoratori NSAB – MLSN, la cui appartenenza di entrambi gli appellanti costituisce una chiave interpretativa inoppugnabile dei loro comportamenti».
Ma si consideri altresì la centralità che assumono, nella complessiva ricostruzione della Corte, anche i materiali mai pubblicati o affissi rinvenuti nella disponibilità degli imputati: sebbene la sentenza evidenzi, in più occasioni, la stringente selezione del materiale atto a integrare la fattispecie operata sin dal primo grado di giudizio, il resto del materiale appare tutto fuorché irrilevante agli occhi del collegio.
Le varie locandine ed i file inediti rinvenuti nei PC degli imputati appaiono invero valorizzati, in più occasioni, al fine di trarne una valutazione complessiva dei fatti rimproverati ai due: così quando si legge che, «seppure […] rientrino nella nozione più restrittiva di propaganda e diffusione solo i messaggi veicolati all’esterno tramite la rete, non vi è dubbio che tutto l’apparato documentale, sia materiale che virtuale, fornisca una chiave interpretativa anzitutto della predisposizione di mezzi strumentali alla più ampia diffusione», e più in generale della loro riconducibilità «ad un progetto unitario di massima propagazione».
Da questo punto di vista, del resto, appare persino più problematica l’affermazione cursoria della Corte, secondo cui l’esistenza di materiale mai pubblicato online o affisso, ma contenuto in cartelle intitolate “Propaganda” o comunque già predisposto con nastro adesivo, possa consentire di «inquadrare la detenzione nell’alveo del delitto tentato»: una conclusione, questa, difficilmente compatibile con la natura di reato di pericolo dell’art. 604-bis c.p., la cui punibilità in forma tentata costituirebbe un arretramento eccessivo della risposta penale.
3.3. Un ultimo profilo problematico della pronuncia in commento attiene, infine, proprio alla valutazione di offensività-pericolosità, da sempre tra gli aspetti più controversi e dibattuti nella riflessione in merito ai crimini d’odio.
A tale proposito, come ricordato, la Corte d’Appello milanese si esprime nel senso di ritenere che la fattispecie «richiede una specifica offensività della condotta inverantesi nella propagazione delle idee in maniera tale da indurre altri a condividerle, così compromettendo il valore egualitario della dignità umana di cui all’art. 3 Cost.»: i giudici sembrerebbero dunque ricollegare, all’attitudine dell’idea di trovare consensi nel pubblico, un’immediata compromissione del valore della pari dignità umana tutelato dalle fattispecie in esame.
La Corte dà quindi mostra di rinunciare alla verifica della possibile derivazione, dal discorso d’odio, di ulteriori atti discriminatori o violenti[10], cui alcune sentenze in passato avevano agganciato la pericolosità del reato in esame[11], ma che rischiava di fare, della propaganda, null’altro che un “doppione” della fattispecie di istigazione[12], sulla falsariga di quanto avvenuto in passato con l’apologia di delitto[13].
La pronuncia in commento sembra però spingersi oltre: ad un’analisi più attenta delle motivazioni che giustificano la decisione, infatti, la ricostruzione della Corte sembra giocarsi sulla mera capacità di circolazione e diffusione di tali materiali, assente qualsivoglia valutazione della concreta idoneità delle condotte a raccogliere consensi al metro della loro caratterizzazione contingente.
Si tratta, a ben considerare, di una conclusione problematica: se si aderisce all’impostazione che distingue istigazione e propaganda intendendole, rispettivamente, quale condizionamento del comportamento altrui e condizionamento del solo pensiero altrui[14], tale caratterizzazione sembrerebbe imporre, quantomeno, un vaglio relativo alla effettiva capacità del contenuto non solo di circolare, ma anche di influenzare il pubblico e raccoglierne le adesioni attorno a idee discriminatorie e razziste. Ed infatti, anche ad ammettere che nell’attitudine dell’idea ad orientare l’opinione altrui sia automaticamente ricollegabile una compromissione delle condizioni di pari dignità e pari godimento dei diritti dei gruppi bersagliati dall’hate speech, si può seriamente dubitare che tale capacità di raccogliere consensi possa desumersi automaticamente dal dato “quantitativo” della ampiezza della diffusione, dovendosi viceversa trarre anche dall’elemento “qualitativo” del tipo di contesto in cui tali condotte si collocano, del pubblico a cui sono rivolte, e così via.
In questo senso, del resto, sembrerebbe orientata anche la giurisprudenza in materia, quando richiede la «contestualizzazione dei fatti»[15], ossia che la verifica della «divulgazione di opinioni finalizzata ad influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico ed a raccogliere adesioni, [sia operata] tenendo conto del contesto in cui si colloca la singola condotta, in modo da assicurare il contemperamento dei principi di pari dignità e di non discriminazione, con quello di libertà di espressione, onde valorizzare perciò l'esigenza di accertare la concreta pericolosità del fatto»[16].
Nel caso di specie, viceversa, l’apparato motivazionale appare sbilanciato sul solo fronte dei mezzi a disposizione per garantire un’ampia diffusione del messaggio: il canone di necessaria offensività del reato non può che uscirne – ulteriormente – compromesso.
3.3.1. A rafforzare l’impressione di un giudizio di pericolosità svincolato dalla verifica di effetti ulteriori e diversi dalla mera circolazione del contenuto milita, del resto, anche l’applicazione, nel caso di specie, dell’aggravante di negazionismo[17], dove è la formulazione letterale della norma ad agganciare l’offensività della condotta alla capacità di circolazione dell’idea divulgata.
Non si può che evidenziare, sul punto, la distanza concettuale che caratterizza la normativa italiana rispetto alla Decisione Quadro 2008/913/GAI sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale, in cui la punibilità è condizionata alla circostanza che «i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all'odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro»[18].
All’epoca dell’attuazione, in Italia, dell’obbligo di incriminazione derivante dalla Decisione Quadro – e dinnanzi alle pregnanti obiezioni che tale prospettiva aveva sollevato[19] – la scelta di introdurre una semplice aggravante in luogo di una fattispecie autonoma era parsa apprezzabile, in quanto funzionale a selezionare, nell’ambito di condotte già qualificabili come istigazione o propaganda penalmente rilevanti[20], «offese particolarmente gravi, perché inferte a gruppi vittime di genocidio»[21], oltretutto mediate dal pericolo concreto, per la prima volta esplicitato quale elemento di fattispecie. Occorre però rilevare criticamente come tale requisito finisca per essere sostanzialmente svuotato dall’individuazione, quale referente finale del giudizio, della mera attitudine del contenuto negazionista a circolare e diffondersi; una previsione che evidentemente prescinde dall’effettiva diffusione dello stesso[22] e ne anticipa la punibilità ad un momento anche di molto precedente.
Ma non solo: la costruzione dell’aggravante attorno ad un pericolo di diffusione dell’idea rischia di provocare uno stravolgimento della logica sottesa alla tecnica d’incriminazione prescelta, trascinando con sé anche la pericolosità della propaganda ed appiattendola sulla mera idoneità diffusiva della stessa. Si finisce così paradossalmente per ampliare, e non restringere, l’ambito di incriminazione del discorso d’odio; con il rischio, ben esemplificato nella pronuncia in commento, che anche le condotte di propaganda, cui l’aggravante negazionista accede, siano ritenute integrate in virtù della mera capacità di circolazione dell’idea, senza che un’analisi dettagliata del contesto e delle modalità dell’azione portino ad approfondire quantomeno l’attitudine del pubblico destinatario della stessa a esserne influenzato o, viceversa, a prenderne le distanze, attivando gli anticorpi di cui ogni società democratica dovrebbe auspicabilmente essere dotata.
[1] La modifica normativa è stata operata dalla L. 24 febbraio 2006, n. 85, che ha anche sostituito la condotta di “incitamento alla discriminazione” con la più stringente dizione di “istigazione a commettere atti di discriminazione”.
[2] In particolare, l’art. 1 della Convezione di New York, ove è intesa come «ogni distinzione, esclusone, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica», l’art. 43 del d.lgs. 286/1998 (Testo Unico Immigrazione), ove ci si riferisce ad «ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusone, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica», nonché l’art. 14 CEDU («Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione»).
[3] Così già Corte cost., sent. n. 87 del 1966, citata anche in un passaggio motivazionale della sentenza in commento.
[4] Sul tema, si veda P. Lobba, Testing the “Uniqueness”: Denial of the Holocaust vs. Denial of Other Crimes before the European Court of Human Rights, in Dir. pen. cont., 2 novembre 2016.
[5] Sul problema della dignità umana quale referente di tutela delle fattispecie in parola, A. Tesauro, Riflessioni in tema di dignità umana, bilanciamento e propaganda razzista, Torino, 2013. Sull’individuazione del bene giuridico tutelato in termini di pari dignità, si veda in particolare M. Pelissero, Discriminazione, razzismo e il diritto penale fragile, in Dir. pen. proc., 2020, 1020; A. Galluccio, Punire la parola pericolosa? Pubblica istigazione, discorso d’odio e libertà di espressione nell’era di internet, Milano, 2020, 348; sia consentito anche il rinvio a S. Prandi, L’uguaglianza violata. Uno studio sull’atto discriminatorio nel sistema penale, Torino, 2024, 74 ss.
[6] Cass. pen., Sez. I, 21 settembre 2023, n. 49346.
[7] Cass. pen., Sez. III, 7 maggio 2008, n. 37581. Sulla ritenuta infondatezza dei dubbi di illegittimità costituzionale della fattispecie associativa, si veda invece Cass. pen., Sez. V, 24 gennaio 2001, n. 31665.
[8] La pronuncia cita, in particolare, il caso Peta Deutschland contro Germania (Corte EDU, Sez. V, 8 novembre 2012), il caso Garaudy contro Francia (Corte EDU, Sez. IV, 24 giugno 2003), nonché, di recente, Corte EDU, Grande Camera, 15 maggio 2023, Sanchez c. Francia, relativa alla condanna del ricorrente per il reato di istigazione all’odio o alla violenza nei confronti di un gruppo di persone individuato sulla base dell’etnia, della nazionalità, della razza o della religione, per non aver rimosso dalla pagina Facebook, di cui era titolare, i commenti islamofobi di alcuni utenti, limitandosi a chiedere di moderare i toni.
[9] Sul tema, ex multis, v. C. Visconti, Aspetti penalistici del discorso pubblico, Torino, 2008; G. Pino, Discorso razzista e libertà di manifestazione del pensiero, in Pol. dir., 2008, 2, 297 ss.; A. Spena, La parola(-)odio. Sovraesposizione, criminalizzazione e interpretazione dello hate speech, in Criminalia, 2016, 577 ss.; L. Goisis, Crimini d’odio. Discriminazioni e giustizia penale, Napoli, 2019; A. Galluccio, op. cit.; A. Tesauro, Punire la propaganda razzista?, in S. Di Piazza-A. Spena (a cura di), Parole cattive, Macerata, 2022, 137 ss. Sul tema dei reati d’opinione in generale, di recente anche R. Bartoli, Reati di opinione e costituzionalismo, in Dir. pen. proc., 2025, 7 ss.
[10] Nel caso di specie, la Corte d’Appello sembra dunque aderire a quello che autorevole dottrina individua come modello c.d. “enunciativo”, distinguendolo dalle forme di istigazione vera e propria: A. Spena, op. cit., 589 ss.
[11] In passato, in effetti, una parte della giurisprudenza si era pronunciata nel senso di ritenere che «l’”odio razziale o etnico” è integrato non da qualsiasi sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibile a motivazioni attinenti alla razza, alla nazionalità o alla religione, ma solo da un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori», e ancora che il giudice di merito «è chiamato di volta in volta a valutare nel caso concreto, dandone adeguatamente conto in motivazione, se l’azione sottoposta al suo giudizio, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, nonché in relazione al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, costituisca reato»: Cass. pen., Sez. III, 14 settembre 2015, n. 36906.
[12] A. Spena, op. cit., 598; S. Prandi, op. cit., 234.
[13] Il riferimento è alla sentenza della Corte cost., 4 maggio 1970, n. 65. Criticamente, S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, 2° ed., Napoli, 1997, 110 s., ma anche C. Fiore, I reati d’opinione, Padova, 1972, 104 ss.
[14] A. Spena, op. cit., 598.
[15] Cass. pen., Sez. III, 14 settembre 2015, n. 36906.
[16] Cass. pen., Sez. I, 17 marzo 2021 n. 10335. Ma si vedano anche, in precedenza, Cass. pen., Sez. V, 22 luglio 2019, n. 32862; Cass. pen., Sez. I, 21 febbraio 2020 (ud. 26 novembre 2019), n. 6933, nonché, ancora, Cass. pen., Sez. III, 14 settembre 2015, n. 36906.
[17] Sul tema, più in generale, si veda E. Fronza, Il negazionismo come reato, Milano, 2012.
[18] Criticamente sul punto, stante la difficoltà di verificare un qualche “risultato pratico” in questi termini, C. Visconti, op. cit., 222.
[19] Si vedano, per tutti, E. Fronza - A. Gamberini, Le ragioni che contrastano l’introduzione del negazionismo come reato, in Dir. pen. cont., 29 ottobre 2013.
[20] Lo rilevava, tra gli altri, M. Pelissero, La parola pericolosa. Il confine incerto del controllo penale del dissenso, in Quest. Giust., 2015, 4, 46.
[21] A. Galluccio, op. cit., 359.
[22] Sul punto D. Bianchi, Propaganda negazionista: tendenze espansive d’una circostanza con habitus da fattispecie autonoma, in Giur. it., in corso di pubblicazione.