GIP Trani, ord. 19 giugno 2024, Giud. Chiddo
1. Con l’ordinanza qui allegata il GIP di Trani si è pronunciato sulla richiesta di archiviazione formulata dal Pubblico Ministero per un fatto in origine sussunto nella fattispecie di istigazione al suicidio ex art. 580 c.p.
Dopo aver disposto le indagini suppletive, alla luce del nuovo materiale probatorio acquisito agli atti, il GIP non ha accolto la richiesta di archiviazione ed ha ordinato l’iscrizione per il diverso delitto di maltrattamenti aggravati ex art. 572, co. 3 c.p.
L’ordinanza è incentrata sull’efficacia interruttiva della scelta suicidaria rispetto al nesso causale fra la condotta ex art. 572 c.p. e la morte della vittima: in questo senso, il g.i.p. arriva a riconoscere come il criterio della condicio sine qua non risulti integrato anche quando chi subisce i maltrattamenti, ormai prostrato psicologicamente ed in uno stato di profonda soggezione verso l’autore della condotta, decida di togliersi la vita pur di sottrarsi alle sofferenze inflitte.
Il provvedimento merita poi di essere segnalato in quanto si sofferma sull’ambito applicativo del delitto di maltrattamenti, specie laddove richiama le nozioni di “convivente” e di “prossimo congiunto”, su cui si è pronunciata la Corte costituzionale sotto il profilo del divieto di analogia in malam partem.
Da ultimo, l’imputazione dell’evento aggravatore – qui rappresentato dal suicidio della vittima, ampiamente prevedibile dall’autore dei maltrattamenti, in quanto consapevole del profondo disagio psichico vissuto dalla compagna – induce a qualche riflessione sul rapporto tra culpa in re illicita e principio di colpevolezza.
Le considerazioni espresse in motivazione devono, ad ogni modo, essere contestualizzate nella fase procedimentale da cui è originata l’ordinanza: si tratta, infatti, di un’opposizione ad una richiesta di archiviazione per il delitto di istigazione al suicidio, conclusasi con l’iscrizione coattiva per maltrattamenti aggravati.
Nel caso di specie, dunque, si deve precisare che quanto affermato nell’ordinanza non attiene alla fase processuale, ma a quella delle indagini preliminari: ai sensi dell’art. 408 c.p.p., la richiesta di archiviazione, infatti, per essere accolta presuppone che gli elementi acquisiti nel corso delle indagini non consentano di formulare una ragionevole previsione di condanna, mentre, nella fase processuale, la pronuncia di una sentenza di condanna ex art. 533 c.p.p. esige che la responsabilità dell’imputato sia dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio.
2. Prima di addentrarci nella disamina degli aspetti di maggiore interesse dell’ordinanza in commento, è opportuno ripercorrere brevemente la vicenda da cui essa prende le mosse.
Nel Comune di Terlizzi si rinveniva il corpo di una giovane donna che, dopo una violenta lite con il compagno, si era tolta la vita soffocandosi con un filo elettrico: da una prima ricostruzione delle dinamiche interne alla coppia, emergeva un quadro psicologico della donna precario e fragile, sia pur non clinicamente patologico, dovuto alle ripetute umiliazioni e violenze fisiche inflitte dal fidanzato.
In particolare, la vittima non aveva più solidi rapporti con la propria famiglia e in giovane età, oltre alla separazione dei genitori, aveva anche subito un aborto da una precedente relazione: il difficile vissuto della ragazza l’aveva così portata più volte a tentare o minacciare il suicidio.
Inoltre, la donna aveva sviluppato una dipendenza affettiva nei confronti del compagno, che, conscio dello stato emotivo della vittima, approfittava della propria condizione di superiorità, denigrandola e mettendo in pericolo la sua integrità fisica.
Nello specifico, durante le indagini, venivano acquisiti messaggi e video che testimoniavano anche gravi episodi di violenza, nella più assoluta noncuranza, da parte dell’indagato, delle ripercussioni emotive sulla vittima.
Concluse le indagini per il delitto di istigazione al suicidio[1], le parti offese si opponevano alla richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero.
3. La riqualificazione della condotta in termini di maltrattamenti aggravati, operata dal g.i.p. alla luce di quanto emerso in sede di indagini suppletive, impone l’analisi degli elementi costitutivi dell’art. 572 c.p.
Dalla plurioffensività della condotta, infatti, emerge come il bene giuridico tutelato non sia più la famiglia in sé, quanto l’integrità psicofisica del soggetto passivo, leso dalla condotta usuale e ripetitiva del soggetto agente[2].
La norma protegge la persona in posizione di disparità rispetto ad un altro familiare, sul quale gravino gli obblighi di assistenza materiale e morale, oltre a quelli di mantenimento ed educazione del soggetto più debole.
Precisati i confini del bene giuridico tutelato, l’ordinanza si sofferma sull’elemento oggettivo della fattispecie.
In merito alla condotta, al reo non sono contestabili solo percosse, lesioni, ingiurie, minacce, ma anche atti di disprezzo offensivi della dignità personale della vittima, quali privazioni ed umiliazioni.
I singoli episodi di maltrattamenti[3], inoltre, non necessariamente devono costituire autonome fattispecie di reato, ben potendo consistere in generiche vessazioni tali da ingenerare nella vittima uno stato di prostrazione abituale.
Il maltrattamento può così consistere o in atti violenti, già di per sé penalmente rilevanti (maltrattamento fisico), o in condotte lecite, ma la cui reiterazione determini la mortificazione o l’afflizione morale della vittima (maltrattamento psicologico)[4].
Il delitto di maltrattamenti, pertanto, si perfeziona solo con il compimento di una pluralità di atti che abbiano carattere usuale e ripetitivo: solo in questa accezione è ravvisabile una condotta lesiva della dignità della vittima[5].
Una conferma di tale inquadramento è rinvenibile anche nella recente giurisprudenza di legittimità[6], secondo cui il termine “maltrattare” non evoca necessariamente il compimento di singole condotte delittuose, riconducibili a fattispecie incriminatrici ulteriori rispetto all’art. 572 c.p.
L’ordinanza è allora in linea con tale consolidato orientamento, in quanto ribadisce che il delitto di maltrattamenti è un reato abituale[7]: esso incrimina una condotta reiterata nel tempo, da cui derivi un regime di vita improntato alla subordinazione ed alla sofferenza, “pur non essendo affatto necessaria la quotidianità della condotta”.
Esaminato questo aspetto, il provvedimento si sofferma sul soggetto agente.
Si tratta di un reato proprio, che può essere commesso solo da un soggetto legato alla vittima da un rapporto familiare o para-familiare, riconoscibile, secondo un’interpretazione conforme all’art. 2 Cost., non solo nella famiglia fondata sul matrimonio, ma anche nell’unione civile o nella mera convivenza[8].
L’estensione dell’ambito applicativo della fattispecie in oggetto richiama, sia pur in via incidentale, la questione relativa all’interpretazione dei termini “convivente” e “familiare”.
Nel provvedimento si legge come il riferimento alla “convivenza” estenda l’applicabilità dell’art. 572 c.p. a qualsiasi consorzio umano in cui la stessa, sorta da una relazione affettiva o dalla consuetudine di vita, abbia originato rapporti di assistenza e solidarietà tra i conviventi[9].
Tale premessa fonda l’ammissibilità del delitto ex art. 572 c.p. anche in danno di una persona legata al reo da una relazione sentimentale, caratterizzata dall’assidua frequentazione delle rispettive abitazioni: secondo un risalente orientamento della Corte di cassazione[10], infatti, si è di fronte ad un rapporto abituale, fonte di sentimenti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale.
Per suffragare questa affermazione, però, l’ordinanza non richiama la sentenza della Corte cost. n. 98/2021 che, in ordine alla possibilità di riqualificare una condotta di atti persecutori nel delitto di maltrattamenti, ha rigettato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità favorevole ad un’interpretazione estensiva dei termini “familiare” e “convivente”.
In quel frangente, la Consulta, pur pronunciando una declaratoria di inammissibilità, ha escluso che il “contesto affettivo protetto”, caratterizzato da “legami forti e stabili tra i partner” e dalla “condivisione di progetti di vita” sia sufficiente per superare il dato letterale.
In particolare, il Giudice delle leggi, fedele al divieto di analogia in malam partem, ha sottolineato come “il significato letterale del testo legale costituisc[a] un limite invalicabile per qualunque interpretazione teleologica, foss’anche costituzionalmente orientata”, dovendo una siffatta interpretazione scegliere fra i possibili significati “interni … al perimetro semantico della disposizione”[11].
Considerato che, nel caso di specie, l’indagato e la vittima erano effettivamente conviventi, il g.i.p. avrebbe potuto avvalorare le sue conclusioni evidenziando come il procedimento avesse ad oggetto proprio una fattispecie sussumibile nell’art. 572 c.p., nell’accezione resa dalla Corte costituzionale.
4. Sviluppati i profili dell’elemento oggettivo, l’ordinanza passa ad esaminare il problema centrale del procedimento de quo, e cioè il ruolo del suicidio della vittima nell’art. 572 c.p.[12]
Quanto al tema del nesso eziologico tra la condotta di maltrattamenti ed il suicidio della vittima, il g.i.p. sottolinea come “non possa essere condivisa l’impostazione secondo cui un tale evento potrebbe essere causalmente addebitato all’autore del reato base solo nei casi in cui trovi nella condotta di maltrattamenti la sua unica causa”.
A sostegno di tale indirizzo si adduceva un’interpretazione del termine “derivare” di cui all’art. 572, co. 3 c.p. nel senso che - come riportato dal g.i.p. - “la causa delle lesioni o della morte deve essere tutta contenuta nel fatto dei maltrattamenti”, avendo in essi “la sua causa fisica, diretta, immediata ed esclusiva”.
Il nesso di derivazione sarebbe allora escluso quando vi sia il concorso di altre concause, sussistente “ogni qual volta nella serie causale si introduc[a] la scelta autonoma di chi decide di togliersi la vita”.
Tale impostazione non è però condivisa dal g.i.p. pugliese: l’uso del verbo “derivare” non deroga all’art. 41 c.p., ma deve essere inteso come “un rinvio alle regole generali con cui il Codice penale regolamenta l’imputazione oggettiva degli eventi causati dall’autore di un reato”[13].
La giurisprudenza di legittimità, infatti, è costante nel riconoscere la fattispecie aggravata dell’art. 572 co. 3 c.p. anche quando la morte della vittima sia avvenuta per suicidio, laddove i ripetuti e gravi episodi di maltrattamenti ingenerino uno stato di prostrazione e di disperazione tale da spingere la vittima a togliersi la vita[14].
Dalla messaggistica acquisita agli atti si evince, infatti, un quadro di violenze fisiche ripetute: la donna, confidandosi con un’amica e con la madre, aveva già rivelato di essere stata percossa dal compagno, sia pur tacendo il fatto ogni qual volta si fosse recata in un presidio sanitario per ricevere le dovute cure.
Ad aggravare lo stato di prostrazione psicologica, si aggiungeva una serie di comportamenti di condizionamento morale, di svuotamento psicologico, di inquinamento progressivo della libertà di autodeterminazione e della personalità da cui la demolizione della dignità della vittima.
Quest’ultima, infatti, era spesso denigrata dal fidanzato, subiva i suoi ricatti morali (durante le frequenti liti, il compagno era infatti solito minacciare la fine della relazione, oltre a rivolgerle espressi inviti a togliersi la vita) e le numerose scenate di gelosia, accompagnate da una profonda ingerenza nella sua vita quotidiana.
Tutto ciò consente al g.i.p. di affermare come il suicidio della vittima non abbia interrotto il rapporto di causalità ma, al contrario, possa essere considerato come “una causa sopravvenuta che abbia potenziato l’efficienza causale dei maltrattamenti”, sempre che “non si verifichi una causa autonoma e successiva, che si inserisca nel processo causale in modo eccezionale, atipico ed imprevedibile”.
Come dimostrato dalla messaggistica tra la vittima e l’indagato, infatti, quest’ultimo teneva un atteggiamento prevaricatore e violento in quanto, consapevole del grave disagio psicologico vissuto dalla compagna, persisteva nel precluderle rapporti sociali a lui invisi, nel vietarle di lavorare, nel controllarle ossessivamente il cellulare e nel ricorrere spesso alla violenza fisica.
Secondo il g.i.p., allora, la causa della progressiva condizione di nullificazione della vittima non è che da attribuire alle vessazioni inflitte alla donna dal compagno.
In questa accezione emerge come il suicidio della vittima, sia pur non materialmente riconducibile ai maltrattamenti, sia contestabile all’agente nei termini della cd. “causalità psichica”.
È infatti consolidato in giurisprudenza[15] l’orientamento secondo cui il nesso eziologico tra l’influsso di carattere psicologico e la condotta materiale tenuta dal destinatario del condizionamento è configurabile anche nei delitti colposi, a fronte di suffragate massime di esperienza, cui faccia seguito un puntuale riscontro delle evidenze probatorie.
Ne deriva, pertanto, che l’essere a conoscenza dei precedenti tentativi di suicidio compiuti dalla vittima e l’averla allontanata da casa in piena notte ed in stato di evidente ubriachezza, oltre a quanto sopra riportato, sono tutti indici che militano nel senso della non imprevedibilità dell’azione suicida, il cui antecedente causale è riconoscibile proprio nei reiterati maltrattamenti subiti.
5. Esaurita la valutazione degli elementi oggettivi, la motivazione analizza l’elemento soggettivo.
Per quanto attiene al dolo della condotta base, esso è unitario e programmatico, nel senso che – precisa il g.i.p – “funge da elemento unificatore della pluralità di atti lesivi della personalità della vittima”.
In particolare, si legge che “il colpevole deve agire nella consapevolezza di persistere in un’attività illecita compiuta già altre volte” e “finalizzata ad avvilire la personalità della vittima”, non rilevando “intervalli di normalità e di intesa con il soggetto passivo” o “il fine specifico di maltrattare la vittima”.
In merito al coefficiente di imputazione soggettiva dell’evento aggravatore, invece, il g.i.p. di Trani afferma come lo stesso debba essere “ancorato a un coefficiente di prevedibilità in concreto del rischio derivante dalla consumazione del reato base”, dovendo l’evento essere “conseguenza prevedibile della condotta di base posta in essere dall’autore del reato e non il frutto di una libera capacità di autodeterminarsi della vittima, imprevedibile e non conoscibile da parte del soggetto agente”.
Ciò è ben espresso dall’ordinanza laddove si evidenzia come il giudice, svolto un giudizio di prognosi postuma, in una prospettiva ex ante, “deve attentamente vagliare e ricercare eventuali segnali che dimostrino che l’autore dei maltrattamenti avrebbe potuto prevedere l’azione suicida della sua vittima”.
Nello specifico, tale giudizio non può prescindere dalla lettura degli atti acquisiti, da cui emergeva come la decisione della vittima “fosse maturata in ragione della progressiva condizione di nullificazione della propria persona, in cui la donna era venuta a trovarsi a causa delle condotte vessatorie, violente e minacciose poste in essere dal compagno”.
“Il nesso di causalità – prosegue la motivazione – sussiste qualora il suicidio sia posto in essere allo scopo di sottrarsi alle continue sofferenze psico-fisiche subite dal maltrattato”.
Ne deriva, allora, che il suicidio è ascrivibile all’autore della condotta di maltrattamenti solo quando rappresenti per la vittima l’unica soluzione di sottrarsi alle proprie afflizioni[16] e ciò sia stato concretamente previsto, e non evitato, dal soggetto agente.
6. Il fatto che l’evento aggravatore segua ad una persistente attività illecita (qui rappresentata dai maltrattamenti) consente di svolgere alcune considerazioni sull’aggravamento della condotta di maltrattamenti.
A fronte di una condotta di maltrattamenti reiterati nel tempo, è imprescindibile chiedersi a che titolo il suicidio della vittima sia imputabile al reo.
Anche nel caso di specie, la soluzione deve essere coerente con il principio di colpevolezza: l’imputazione dell’evento ulteriore presuppone, come si è detto, la riconoscibilità di un coefficiente di prevedibilità concreta del rischio, derivante dalla consumazione del reato base.
Tale giudizio, però, è condizionato dalla ricostruzione della natura giuridica riconosciuta all’art. 572, co. 3 c.p.[17], quale reato circostanziato o delitto autonomo a struttura preterintenzionale[18]: sebbene questa seconda tesi sia stata sostenuta dai fautori dell’affinità strutturale con gli artt. 584 e 586 c.p.[19], la dottrina prevalente[20] privilegia l’interpretazione nel senso di una circostanza aggravante speciale.
La sussumibilità nell’una o nell’altra categoria assume rielevo ai fini della disciplina applicabile: se circostanza aggravante, troverà applicazione il regime di imputazione colposo dell’art. 59 c.p., modificato dalla l. n. 19/1990; se reato aggravato dall’evento, anche quest’ultimo dovrà essere contestabile quantomeno a titolo di colpa, pena il riconoscimento di una responsabilità oggettiva, non conforme al dettato costituzionale.
Le considerazioni in oggetto permettono di introdurre il tema della compatibilità tra culpa in re illicita e prevedibilità in concreto dell’evento suicidario, anche alla luce di quanto affermato dalla recente giurisprudenza in merito all’imputazione dell’evento morte negli artt. 584 e 586 c.p.
L’accostamento di tali nozioni alla categoria dei delitti aggravati dall’evento, infatti, deriva dal progressivo, anche se non definitivo, abbandono dell’imputazione oggettiva dell’evento aggravatore non voluto[21].
Rifiutato il criterio del versari in re illicita, l’imputazione a titolo preterintenzionale dell’evento non voluto deve osservare il principio di colpevolezza che, a partire dalla pronuncia della Corte costituzionale sul concorso anomalo, per arrivare poi agli arresti del 1988 e del 2007, costituisce canone per una reinterpretazione conforme al dettato costituzionale delle ipotesi di responsabilità oggettiva ancora presenti nel corpo del Codice penale[22].
La sua rilevanza, tuttavia, è ancora messa in discussione[23] dalla giurisprudenza di legittimità relativa all’imputazione soggettiva dell’evento non voluto nell’esercizio di un’attività illecita[24], qual è la morte nel delitto di omicidio preterintenzionale[25].
Ciononostante, la Corte di cassazione solo di recente[26] si è espressa a favore della piena compatibilità tra colpa ed attività illecita, in particolar modo valorizzando il concetto di “area di rischio” e spostando l’analisi sulla prevedibilità in concreto dell’evento dalla causalità all’imputazione soggettiva.
Nello specifico, i primi commenti al nuovo orientamento giurisprudenziale hanno sottolineato come l’accezione soggettiva della prevedibilità in concreto dell’evento esiziale ex art. 584 c.p. consenta di distinguere nettamente tra il dolo omicidiario (per cui si richiede la previsione effettiva della morte) e la sola volontà di ledere e percuotere (ferma alla mera concreta prevedibilità dell’evento aggravatore)[27].
Del resto, una siffatta interpretazione sembra rispondere in parte ai rilievi critici mossi alle Sezioni Unite Ronci del 2009[28], contestate là dove non approfittarono dell’occasione per delineare una nozione unitaria di colpa in attività illecita, concentrandosi invece sulla sola valorizzazione della prevedibilità in concreto dell’evento non voluto[29].
Il fatto che la colpa in attività illecita non sia definita non sembra dar luogo al rischio di nuove responsabilità da posizione, in quanto gli ultimi approdi giurisprudenziali, ribadita la natura della culpa in re illicita come “colpa normale”[30] (in linea con le Sezioni Unite Ronci), hanno ammesso la compatibilità tra la stessa ed il contesto illecito dell’azione[31].
La compatibilità generale tra colpa generica ed attività illecita, insieme alla prevedibilità in concreto dell’evento morte, vale così anche per l’imputazione all’autore della condotta dolosa del suicidio della vittima.
A tale conclusione, per la verità, la giurisprudenza[32] era già giunta riguardo ad un caso di applicazione dell’art. 586 c.p., dove l’azione suicida era stata tenuta da un soggetto vittima di usura e ridotto alla disperazione dalle reiterate richieste estorsive ed usurarie[33].
Anche in quella circostanza, la Corte di cassazione rifiutò di addebitare l’evento morte sulla base del solo nesso di causalità rispetto al primo segmento doloso della condotta[34] o di ricorrere ad una presunta colpa per inosservanza di legge[35].
La rilevanza di questo risalente, ma mai sconfessato precedente, insieme alle motivazioni del provvedimento di cui si discute, consente pertanto di riconoscere l’unitarietà del modello di rimproverabilità soggettiva dei delitti aggravati dall’evento, siano essi autonome fattispecie di reato o circostanze aggravanti.
7. Da ultimo, la disamina dell’elemento soggettivo consente di evidenziare le differenze tra il delitto di istigazione al suicidio e la fattispecie aggravata di maltrattamenti.
Il g.i.p. di Trani, infatti, svolte le argomentazioni di cui si è dato conto, ha rigettato la richiesta di archiviazione ed ha ordinato al pubblico ministero di provvedere all’iscrizione nel registro delle notizie di reato per il delitto di maltrattamenti aggravati ex art. 572, co. 3 c.p., in luogo dell’originaria qualificazione della condotta come istigazione al suicidio ex art. 580 c.p.[36]
Sotto il profilo oggettivo, il delitto di istigazione al suicidio è una fattispecie plurisoggettiva impropria[37], in cui la condotta dell’agente deve avere una oggettiva efficienza nella causazione dell’evento del reato, materialmente imputabile alla vittima.
Secondo la recente giurisprudenza di legittimità[38], inoltre, l’istigatore terrebbe una condotta di partecipazione morale[39], intesa quale “mero antecedente necessario dell’evento, che influisce, sul piano psicologico, sulla determinazione del soggetto passivo di compiere il gesto autolesivo”.
Per quanto attiene all’elemento soggettivo, invece, l’art. 580 c.p., a differenza dell’art. 572, co. 3 c.p., risulta caratterizzato da un “intrinseco finalismo orientato all’esito finale” (assente nei maltrattamenti aggravati, pena la consumazione di un omicidio) in cui l’integrazione del dolo generico richiede la prefigurazione dell’evento come dipendente dalla propria condotta e la consapevolezza dell’obiettiva serietà dell’altrui proposito suicida, al cui rafforzamento tende la condotta del reo.
L’iscrizione ex art. 572, co. 3 c.p., al contrario, fonda l’imputazione al reo dell’evento aggravatore solo quando, accertata la causalità psichica tra i maltrattamenti ed il suicidio, sia provata anche la concreta prevedibilità dell’esito fatale, esclusa ogni qual volta risulti che la vittima abbia agito liberamente e non per via dei maltrattamenti subiti[40].
Tale riqualificazione avrà importanti ripercussioni sull’onere probatorio della pubblica accusa, data la differenza strutturale tra le due fattispecie incriminatrici: l’art. 580 c.p. non solo richiede la prova dell’efficienza eziologica del contegno istigatorio rispetto al suicidio, ma presuppone anche la volizione del contributo causale prestato alla condotta della vittima e la rappresentazione delle conseguenze lesive che ne deriveranno; al contrario, l’art. 572, co. 3 c.p. impone l’accertamento della causalità psichica tra lo stato di prostrazione della vittima e la morte per suicidio, di per sé non voluta dall’agente.
8. L’analisi del provvedimento in oggetto consente di svolgere alcune brevi considerazioni sul principio di colpevolezza e sulla attribuibilità del suicidio della vittima in capo all’autore di maltrattamenti.
Il delitto di maltrattamenti aggravato dall’evento morte, soprattutto quando si sia verificato per via del suicidio della vittima, infatti, deve essere interpretato in un’accezione conforme al dettato costituzionale, il quale esige che gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice siano sorretti da un coefficiente psicologico, inteso nei termini della rimproverabilità soggettiva della condotta.
Il fondamento costituzionale di tale principio, espresso dalle sentenze della Corte costituzionale nn. 364 e 1085 del 1988, consente così di dare piena attuazione alla finalità rieducativa della pena: se è vero che senza colpevolezza non c’è bisogno di rieducazione, in quanto non si ravvisano né un atteggiamento di aperta ostilità né di negligente noncuranza rispetto ai beni giuridici protetti dall’ordinamento, è altrettanto incontestato che la pena inflitta a prescindere dalla colpevolezza verrebbe percepita dal reo come ingiusta, da cui il rischio di una esito addirittura contrario all’art. 27 Cost., ovvero diseducativo.
Il principio personalistico, pertanto, è da intendere nel senso che i singoli elementi costitutivi della disposizione incriminatrice contribuiscono a segnare il disvalore oggettivo del tipo, dovendosi ravvisare in relazione a ciascuno di essi la responsabilità dell’autore.
Logica conseguenza è il rifiuto del principio del qui in re illicita versatur etiam tenetur pro casu, il quale, se da una parte, valorizza la funzione general-preventiva della pena, dall’altra strumentalizza la persona del colpevole per finalità di politica criminale.
Quanto sopra non può non trovare applicazione anche in relazione al suicidio della vittima di maltrattamenti, contestabile all’autore della condotta base solo quando sia concretamente prevedibile come evento aggravatore delle vessazioni commesse.
In conclusione, anche nel caso di specie (ovvero quando l’evento aggravatore si inserisca in un contesto d’azione già di per sé illecito) rimangono valide le conclusioni cui erano giunte le Sezioni Unite nella sentenza Ronci, secondo cui ciò che rileva è la prevedibilità in concreto dell’esito fatale, alla stregua del parametro di un razionale agente modello.
[1] Sulla rimodulazione dell’art. 580 c.p., si veda il doppio intervento della Corte costituzionale con le sentenze n. 208/2018 e 242/2019 le quali, pur rilevando l’illegittimità della norma nella parte in cui punisce l’aiuto al suicidio prestato al ricorrente in determinate condizioni, riconoscono la perdurante compatibilità costituzionale del delitto nella tutela del diritto alla vita delle persone più vulnerabili. Cfr. F. Lazzeri, Commento all’art. 580 – Istigazione o aiuto al suicidio, in Codice penale commentato, III, V ed., (diretto da) E. Dolcini – G. L. Gatta, Ipsoa, Milano, 2021, p. 941. La Corte costituzionale, con la recente sentenza n. 135/2024, ha esteso la nozione di “trattamento di sostegno vitale” anche alle procedure la cui interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo.
[2] M. Miedico, Commento all’art. 572 – Maltrattamenti contro familiari e conviventi, in Codice penale commentato, cit., p. 742.
[3] Sull’impossibilità per l’atto episodico ed isolato di configurare il delitto di maltrattamenti, anche se lesivo dei diritti fondamentali della persona, cfr. Cass., Sez. VI, 3/06/2022, n. 21646.
[4] A. Madeo, Opacità normative e licenza interpretativa giurisprudenziale sui concetti di familiare e convivente: lo sconfinamento del delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi nel campo applicativo degli atti persecutori aggravati, in Leg. Pen., 17/05/2023, p. 14 ss.; A. Roiati, La fattispecie dei maltrattamenti contro familiari e conviventi. Tra interventi di riforma, incertezze interpretative e prospettive “de iure condendo”, in Dir. pen. cont., 4/2022, p. 184 ss.
[5] Per un richiamo esaustivo alla giurisprudenza di legittimità, nell’ottica del reato abituale in generale, G. Marinucci – E. Dolcini – G. L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, XIII ed., Giuffrè, Milano, 2024, p. 310.
[6] Cass., Sez. VI, 30/06/2021, n. 29190.
[7] Sulla controversa natura del reato abituale, F. Bellagamba, L’eclettica struttura del reato abituale nel labirintico contesto delle fattispecie di durata, in Leg. Pen., 7/2020, p. 10. Sul “rischio di trasformazione del reato abituale in reato continuato”; M. Telesca, Il dolo nel delitto di maltrattamenti in famiglia (considerazioni “in limine” alla decisione n. 6070/2017 della suprema Corte), in Cass. pen., 5/2017, p. 1941 ss.
[8] La dottrina è concorde nel riconoscere come l’originaria concezione della famiglia, quale nucleo sociale imperniato sulla figura del marito-padre, sia ormai superata da un’accezione più democratica ed elastica: così, S. Seminara, I delitti contro la personalità individuale, in R. Bartoli – M. Pelissero – S. Seminara, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, II ed., Giappichelli, Torino, 2022, p. 117.
[9] La giurisprudenza di legittimità interpreta estensivamente la norma, fino a ricomprendere anche le ipotesi di cessata convivenza, caratterizzate, però, dall’instaurazione di un perdurante progetto di vita condiviso, da una stabile relazione affettiva o da una mantenuta consuetudine di vita comune (ad. es. i doveri derivanti dalla filiazione). Ex multis, cfr. Cass., Sez. VI, 24/02/2021, n. 7259 e Cass., Sez. V, 9/04/2020, n. 11727.
[10] Cass., Sez. V, 17/03/2010, n. 24688.
[11] F. Palazzo, Costituzione e divieto di analogia, in Dir. pen. proc., 9/2021, p. 1218 ss.
[12] Per una panoramica generale sulla rimproverabilità al reo del suicidio della vittima, F. Pavesi, In tema di suicidio a seguito di maltrattamenti, in Giur. it., 12/2008, p. 2812, oltre a G. Carloni, La responsabilità dell’autore di maltrattamenti in famiglia nel caso di suicidio della persona offesa, in Cass. pen., 11/2008, p. 4096 e E. Di Salvo, Il suicidio della vittima come conseguenza di una condotta di maltrattamenti, in Cass. pen., 3/2009, p. 906.
[13] Cass., Sez. VI, 29/11/2007, n. 12129.
[14] Cass., Sez. VI, 15/10/2009, n. 44492 e Cass., Sez. VI, 29/11/2007, n. 12129. Per sentenze ancor più risalenti, si vedano Cass., Sez. VI, 28/06/1971, n. 722 e Cass., Sez. VI, 19/02/1990, n. 8405.
[15] Leading case è la sentenza sulla Commissione Grand Rischi, dove la Cassazione ha riconosciuto il nesso di derivazione causale tra le informazioni, imprecise e contraddittorie, sulla pericolosità e sui futuri sviluppi dell’attività sismica fornite dagli imputati e la decisione di alcune vittime di rimanere in casa, nonostante il protrarsi delle scosse sismiche (cfr. Cass., Sez. IV, 25/03/2016, n. 12748). Sul punto, con particolare riferimento alla possibile valorizzazione della psicologia sociale nella ricostruzione dei fenomeni di condizionamento psichico, G. Ponteprino, Il concorso morale nel reato. Il problematico riscontro della causalità psichica, Giappichelli, Torino, 2024, p. 402.
[16] S. Seminara, ult. op. cit., p. 119.
[17] Sul dibattito dottrinario circa le diverse teorie sul delitto aggravato dall’evento, cfr. P. Pisa, in Grosso – Pelissero – Petrini – Pisa, Manuale di diritto penale. Parte generale, III ed., Giuffrè, Milano, 2020, p. 513; F. Palazzo – R. Bartoli, Corso di diritto penale. Parte generale, IX ed., Giappichelli, Torino, 2023, p. 426; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, VIII ed., Zanichelli, Bologna, 2019, p. 694. Sui reati di durata in generale, G. Marinucci – E. Dolcini – G. L. Gatta, op. ult. cit., p. 309 ss.
[18] In merito al rapporto tra reati abituali e reati a condotta plurima non reiterata, A. Aimi, Le fattispecie di durata. Contributo alla teoria dell’unità o pluralità di reato, Giappichelli, Torino, 2020, p. 125 ss., secondo cui la distinzione sembra perdere progressivamente peso, in quanto i reati abituali sono destinati a cedere, nella fase pre-consumativa, ai reati caratterizzati da una descrizione in senso pluralistico della condotta (es. la sottrazione e l’impossessamento nel delitto di furto) e, nella fase post-consumativa, alla vis expansiva del reato permanente.
[19] F. Coppi, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Enc. dir., XXV, 1975, p. 223; G. D. Pisapia, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Dpen, VII, 1993, p. 518.
[20] Sebbene alcuni delitti aggravati dall’evento siano riconducibili al modello della preterintenzione, ne esistono alcuni in cui il regime di imputazione dell’evento aggravatore è quello delle circostanze, salva la diversa imputazione dovuta alla struttura della fattispecie (es. art. 286 c.p.) Cfr. F. Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, VIII ed., Giappichelli, Torino, 2021, p. 511.
[21] V. Badalamenti, Il criterio di imputazione colpevole dell’omicidio preterintenzionale: la Cassazione segna un ritorno ai binari costituzionale, in Sist. Pen., pubblicato il 13/12/2023; M. Nicolini, La Cassazione riafferma e sviluppa l’orientamento consolidato in tema di imputazione soggettiva dell’omicidio preterintenzionale, in Sist. Pen., pubblicato il 4/05/2023.
[22] Sulla rimproverabilità a titolo colposo del delitto più grave nel concorso anomalo, C. Cost., 31/05/1965, n. 42, mentre per il pieno riconoscimento del principio di colpevolezza, C. Cost. 24/03/1988, n. 364 e C. Cost. 13/12/1988, n. 1085. Da ultimo, la C. Cost. 24/07/2007, n. 322 ha ribadito la necessità di un “coefficiente minimo indispensabile”, di un “limite estremo di rimproverabilità”, riconoscibile nel “collegamento psichico – almeno nella forma della colpa – tra l’agente e il nucleo significativo o fondante della fattispecie”.
[23] Propende per la dimensione oggettiva della colpa, S. Canestrari, L’illecito penale preterintenzionale, Cedam, Padova, 1989, p. 109 ss.
[24] F. Basile, La colpa in attività illecita. Un’indagine di diritto comparato sul superamento della responsabilità oggettiva, Giuffrè, Milano, 2005, passim; A. Carmona, Il principio di personalità nell’ultima giurisprudenza della Corte di Cassazione: “colpa” o prevedibilità nel versari in re illicita, aspettando le Sezioni Unite, in Riv. pen., 2009, p. 501 ss. In particolare, R. Bartoli, “Colpa” in attività illecite: un discorso ancora da sviluppare, in Dir. pen. proc., 9/2010, p. 1047 ss., dove l’Autore ricostruisce le diverse soluzioni prospettate in ordine al criterio di imputazione dell’evento. Tra queste, all’originaria responsabilità oggettiva è seguita la tesi della colpa specifica, secondo cui il reato base doloso conterrebbe una regola cautelare avente il contenuto di astensione dall’attività illecita. La teoria della prevedibilità in astratto, invece, impone la verifica di un rapporto di omogeneità strutturale tra la condotta voluta e quella realizzata, con ciò contrapponendosi alla responsabilità da rischio totalmente illecito. Il dibattito si è poi concluso con l’adesione delle Sezioni Unite Ronci al criterio della colpa in concreto, sussistente a fronte della violazione di vere e proprie regole cautelari.
[25] M. Pelissero, Bondage e sadomasochismo: i limiti della responsabilità penale tra fine di piacere e libero consenso, in Dir. pen. proc., 3/2017, p. 347 ss., il quale precisa che “in quanto elemento costituivo della fattispecie incriminatrice, non dovrebbe essere dubbia l’imputazione colposa, considerato che su di essa ricade il disvalore del fatto”.
[26] Cass., Sez. V, 27/09/2022, n. 46467 e Cass., Sez. VII, 13/12/2023, n. 49667.
[27] G. Ponteprino, Preterintenzione e culpa in re illicita. La costruzione di uno statuto differenziato quale argine allo strisciante riconoscimento della responsabilità oggettiva, in Leg. pen., 9/03/2024, p. 24.
[28] Cass., Sez. Un., 22/01/2009, n. 22676.
[29] G. Ponteprino, op. ult. cit., p. 31.
[30] Anche la dottrina più recente ha riconosciuto nella colpa in attività illecita la “medesima fisionomia” di quella ordinaria, F. Basile, Commento all’art. 584 – Omicidio preterintenzionale, in Codice penale commentato, III, V ed., (diretto da) E. Dolcini – G.L. Gatta, Ipsoa, Milano, 2021, p. 1058 ss.
[31] Non ravvisa ostacoli alla configurabilità della colpa anche nel contesto illecito della condotta, G. Civello, voce Prevedibilità e reato colposo, in M. Donini (diretto da), Reato colposo, in Enc. dir., Giuffrè, Milano, 2021, p. 1004 ss. L’ammissibilità della colpa in attività illecita, tuttavia, non esclude che l’accertamento della colpa sia connotato da tratti di peculiarità, al punto che, in dottrina, si parla ormai di “colpe”, in luogo di una nozione unitaria. Per una trattazione esaustiva, S. Canestrari, La fisionomia dell’illecito preterintenzionale tra diritto vivente e prospettive di riforma, in Liber amicorum Adelmo Manna, Pisa University Press, Pisa, 2020, p. 82. Nel concorso di persone nel reato, sottolinea la centralità del giudizio caso per caso, F. Consulich, Il concorso di persone nel reato colposo, Giappichelli, Torino, 2023, p. 78.
[32] Cass., Sez. I, 22/10/1998, n. 11055. Più di recente, Cass., Sez. VI, 4/04/2019, n. 38060.
[33] P. Pisa, Duplice svolta giurisprudenziale a proposito di usura e art. 586 c.p., in Dir. pen. proc., 11/1999, p. 86 ss.
[34] La non condivisibile tesi della colpa per inosservanza di leggi quale criterio per l’imputazione dell’evento morte nell’art. 584 c.p. fu sostenuta da A. De Marsico, Colpa per “inosservanza di leggi” e reato aberrante, in Annali dir. proc. pen., 1940, p. 237 ss. Con riferimento all’inammissibilità dell’omicidio preterintenzionale aberrante, tuttavia, si vedano le due pronunce della Corte di cassazione sui fatti di Piazza San Carlo e di Corinaldo, Cass., Sez. V, 20/4/2022, n. 15269 e Cass., Sez. V, 20/02/2023, n. 7213. In senso conforme alla soluzione della giurisprudenza di legittimità, G. Ponteprino, op. ult. cit., p. 19, il quale osserva come “la severità del trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 584 c.p. sarebbe difficilmente giustificabile se si sostituisse il dolo del reato con una mera fictio”.
[35] L’obiezione secondo cui la colpa specifica presuppone la violazione di una regola cautelare volta a prevenire la morte del soggetto leso o percosso, insieme al rischio di riemersione di una responsabilità oggettiva occulta, è argomentata da F. Mantovani, Responsabilità oggettiva espressa e responsabilità oggettiva occulta, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/1981, p. 456 ss. Se la responsabilità oggettiva espressa è superabile con l’abrogazione, la maggiore insidiosità della responsabilità oggettiva occulta, secondo l’Autore, risiede nel fatto che i suoi coefficienti “possono annidarsi nello stesso concetto di colpevolezza e nelle sue specifiche forme del dolo e della colpa, quando essi non siano non solo concepiti ma anche concretamente applicati in termini di autentica responsabilità soggettiva”.
[36] La fattispecie è stata oggetto di una sentenza della Corte di cassazione che, nel noto caso “Blue whale challenge”, ha escluso la configurabilità dell’art. 580 c.p. per la mancata verificazione del suicidio o del tentativo con lesioni gravi o gravissime, non essendo punibile né il mero tentativo né l’istigazione non accolta o improduttiva di effetti (Cass., Sez. V, 23/11/2017, n. 57503). Sul punto, v. G. Ponteprino, Il concorso morale nel reato, cit., p. 337.
[37] In dottrina, qualificano la condotta come fattispecie plurisoggettiva imperfetta o impropria: G. Marini, voce Omicidio, in Dig. Disc. Pen., VIII, Torino, 1991, p. 532; M. Bertolino, voce Suicidio (istigazione o aiuto al), in Dig. Disc. Pen., XIV, Torino, 1999, p. 115.
[38] Cass., Sez. V, 14/02/2024, n. 17965.
[39] Dubbio il riferimento alla compartecipazione morale in un “non reato”, con ciò intendendosi il fatto libero del suicidio. Tale forma di compartecipazione ricorre, infatti, con riferimento alla rilevanza penale del consiglio di ordine tecnico nei reati propri. Sul punto, A. Perini, Il consiglio tecnico come forma di compartecipazione dell’estraneo nei reati propri, in Riv. trim. dir. pen. ec., 3/2003, p. 719 ss.; A. Manna, Il reato di lottizzazione abusiva e le varie ipotesi di responsabilità penale del notaio, in Temi romana, 3/1981, p. 339 ss., G. Ponteprino, op. ult. cit., p. 196. Con riguardo ai reati societari e fallimentari, F. Carcano, La responsabilità dell’amministratore di diritto di una società per falso documentale commesso da soggetto delegato alla gestione, in Cass. pen., 2/2017, p. 667 ss.
[40] Cass., Sez., VI, 15/10/2009, n. 44492, secondo cui sussiste il rapporto di causalità quando “il suicidio sia da mettere in sicuro collegamento con i ripetuti e gravi episodi di maltrattamenti pregressi, così da determinare nella vittima uno stato di prostrazione e di disperazione tale da costituire un vero e proprio attentato alla sua integrità fisica e morale, così grave ed irrimediabile da spingerla alla morte”.